Valeria Luiselli |
Il work in progress di Valeria Luiselli
Che rapporti ci sono tra l’arte, la letteratura e i succhi di frutta? Più di
uno, perlomeno a Città del Messico: al principale produttore locale di succhi e
bibite, il Grupo Jumex, si devono sia la nascita di una grande Galleria alla periferia
della capitale messicana, sia quella del Museo Jumex, immenso edificio ultramoderno
nell’elegantissima Colonia Polanco, che presenta, oltre a una ricca collezione di
opere contemporanee, mostre di importanza internazionale. Quanto alla letteratura,
il suo legame con le suddette bevande è subito evidente a chiunque legga le ultime
pagine del secondo romanzo di Valeria Luiselli (La storia dei miei denti,
La Nuova Frontiera, pag. 185, e. 16,50, appena uscito nell’ottima traduzione di
Elisa Tramontin), in cui l’autrice racconta che è stata proprio la Jumex a chiederle
di scrivere qualcosa capace di collegare la Galleria alla vicina fabbrica di succhi
e al desolato quartiere suburbano di Ecatepec, in cui entrambe sorgono.
Ma quello che doveva essere solo un testo da inserire nel catalogo di una mostra
si è trasformato in un romanzo vero e proprio, scritto all’inizio in forma di fascicoli
settimanali che un gruppo di operai della fabbrica ha letto via via ad alta voce
(sul modello delle “letture da tabaccheria” in auge nella Cuba del XIX secolo),
per poi discuterli e commentarli. Rivisto più volte, corredato delle foto dei luoghi
dove le vicende si svolgono e di un titolo insolito, il libro è apparso nel 2013
presso Sexto Piso (editore indipendente tra i migliori dell’America latina), lasciando
alquanto perplessa la critica messicana. Negli Stati Uniti, al contrario, due anni
dopo critici e pubblico lo hanno accolto trionfalmente: un successo confermato da
riconoscimenti importanti e perfino superiore a quello, già notevole, che il romanzo
aveva riscosso in Germania.
Che in Messico La storia dei miei denti non sia piaciuto quanto all’estero,
si deve forse al fatto che, dopo le lodi riservate a Carte false (a metà
tra narrativa e saggistica) e al suo primo romanzo Volti tra la folla, la
Luiselli ha preferito allontanarsi bruscamente da un sentiero che pareva già tracciato,
per imboccare la via della sperimentazione più irriverente e spiazzare così quanti
le avevano subito assegnato un posto tra le giovani scrittrici nazionali a vocazione
intimista e metaletteraria, con sfumature nuove ma comunque riferibili a una tradizione
consolidata.
La storia dei miei denti, invece, ha tutte le caratteristiche
di un irrefrenabile sberleffo e, pur rimandando apertamente al romanzo picaresco
o a certi aspetti dell’avanguardia latinoamericana degli anni ’70 (non a caso qualcuno
ne parla come di un romanzo-installazione), respinge qualsiasi etichetta, sfugge
a ogni categoria e pratica una libertà inventiva quasi anarchica nel narrare la
storia di Gustavo Sánchez Sánchez detto Autostrada, bambino di rara bruttezza e
poi custode di una fabbrica di succhi di frutta, ballerino fallito, marito infelice,
fabulatore ai confini della mitomania, e infine collezionista accanito e banditore
d’asta di talento, che al posto della propria irregolarissima dentatura si fa impiantare
quella un po’ ingiallita della defunta Marilyn Monroe, e che in denti celebri (o
presunti tali: non mancano quelli di Platone, Petrarca e Virginia Woolf) traffica
con spudorata esuberanza, vendendoli grazie agli aneddoti iperbolici che inventa
su di essi.
Romanzo comico, surreale, rapido, frammentario, fatto di tante piccole storie
incastrate una nell’altra e di inquietanti episodi beckettiani, come quello che
vede Sánchez rinchiuso nella sala di una galleria d’arte (o meglio, della Galleria),
alle prese con quadri parlanti e con la crudeltà di un figlio perduto, La storia
dei miei denti non esita ad affrontare un certo numero di questioni sostanziose,
dal rapporto tra arte e mercato o tra artista e committente, fino a una riflessione
su ciò che Sánchez chiama “i collezionabili”, ovvero l’enorme quantità di oggetti
prodotti, consumati e scartati dal capitalismo maturo: una discarica planetaria
in cui si può frugare all’infinito e che, tramite l’assegnazione di nuovi significati
(quelli che trasformano la spazzatura in memorabilia), offre la possibilità di riciclare
– cioè di vendere ancora, ricavandone altro profitto – praticamente qualsiasi cosa.
Tutti i personaggi minori del libro (sarte, negozianti, operai), portano i nomi
di scrittori e artisti del presente e del passato, e accanto a quelli noti ovunque
ce ne sono molti che i lettori italiani non riconosceranno, ma che tracciano una
specie di mappa minima e personale della letteratura latinoamericana: una scelta
che può far pensare a un gioco di società, a un ammiccamento destinato ai lettori
forti, finché non ci si accorge che, così svuotata di significato, la girandola
dei nomi sembra alludere con leggerezza all’autoreferenzialità della produzione
culturale, e insinua che la comunità letteraria sia un mondo sconosciuto e inconoscibile,
quindi irrilevante, per quanti non le appartengono.
Ad aggiungere un ultimo, speciale elemento di fascino al romanzo di Valeria
Luiselli è infine il suo essere a tutti gli effetti un work in progress;
confrontando la versione in lingua originale con quella in inglese o in italiano,
è possibile notare numerose differenze: personaggi che cambiano nome, episodi aggiunti,
eliminati o trasformati, e perfino l’apparizione di un’incantevole cronologia finale
che situa nel tempo la vicenda di Gustavo Sánchez, opera della traduttrice americana
Christina MacSweeney. Quasi un altro romanzo, insomma, che si sovrappone a quello
immediatamente precedente, perché l’autrice approfitta di ogni passaggio a una nuova
lingua per ripensare e rivedere la sua opera, in stretta collaborazione con chi
la traduce: un editing costante che nasce dalla sua ossessione per la riscrittura
e la correzione. E anche dalla convinzione, è lei stessa a dirlo, che avesse ragione
Borges, quando sosteneva che ogni traduzione è un nuovo originale.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’ottobre del 2016