José Lezama Lima |
Lezama, un continente sconosciuto che si intravede in lontananza
“Leggo Paradiso a poco a poco, sempre più abbagliato e stupito. Un edificio
verbale di ricchezza incredibile, o meglio, non un edificio ma un mondo di architetture
in continua metamorfosi e, anche, un mondo di segni – suoni che si configurano in
significati, arcipelaghi del senso che si fa e si disfa – il mondo lento della vertigine
che gira intorno a quel punto intoccabile che si trova tra la creazione e la distruzione
del linguaggio, quel punto che è il cuore, il nucleo del linguaggio”.
È in una lettera del 1967 alle sorelle, emigrate negli Stati Uniti sei anni
prima, che José Lezama Lima riporta il lusinghiero testo del biglietto inviatogli
da Octavio Paz per ringraziarlo dell’invio del romanzo uscito nel 1966 (il primo
capitolo era apparso nel ’49 sulla rivista Origenes), e accolto in modo meno
positivo dalla cultura ufficiale cubana, in procinto di inabissarsi nelle infinite
censure del Quinquenio gris, durante il quale anche Lezama, che aveva
accolto la Rivoluzione con entusiasmo e da ragazzo aveva partecipato alle manifestazioni
contro il dittatore Machado, sarebbe stato emarginato e ridotto al silenzio (solo
negli anni seguenti la sua opera e la sua figura diverranno oggetto di una rivalutazione
e di significativi omaggi).
Ma la pruderie governativa – Paradiso, con le sue scene erotiche
più che esplicite, venne subito etichettato come pornografico – non fu l’unica causa
di una perplessità a tratti irridente, anche se controbilanciata dai molti ed entusiastici
giudizi di illustri estimatori stranieri, da Paz a Cortázar a Ribeyro. Il fastidio,
il rifiuto, nascevano piuttosto dalla presunta “illeggibilità”, dal linguaggio ermetico,
dal mancato rispetto di qualsiasi convenzione narrativa, che connotavano il primo
romanzo di un intellettuale ultracinquantenne, già noto per l’intensa attività culturale
(attorno a Origenes, fondata nel 1944 e da lui diretta per dodici anni, si
era raccolto un gruppo di artisti e poeti che influenzarono profondamente la pittura
e la letteratura cubana del tempo), per l’opera poetica inaugurata vent’anni prima
dall’ammaliante Muerte de Narciso e proseguita con quattro preziose antologie,
e infine per i saggi originalissimi.
Se il poeta e saggista risultava inclassificabile e al di fuori di ogni canone,
il romanziere appariva così esigente da far pensare alla prima frase di La expresión
americana (raccolta di saggi con cui Lezama aveva sovvertito, nel 1957, la tradizione
consolidata del pensiero americanista), ovvero: Solo il difficile è stimolante.
Quanto difficile e stimolante sia ancora oggi Paradiso – testo che
esige pazienza, ma che sprigiona seduzioni tali da indurre il lettore a immergersi
in acque profonde, come suggeriva Julio Cortázar – i lettori italiani potranno riscoprirlo
grazie a una nuova edizione del romanzo, proposta da Sur (pag. 750, e. 25) in coincidenza
con il cinquantenario della prima uscita in lingua originale; la traduzione, corredata
di nutrite appendici, è la stessa del 1995, firmata da Glauco Felici per Einaudi:
l’unica attendibile, in effetti, perché condotta sul testo rivisto nel 1988 da un
gruppo di studiosi cubani guidati dall’origenista Cintio Vitier, cui il confronto
con il manoscritto originale permise di eliminare le centinaia di errata
che hanno accompagnato la storia editoriale di Paradiso e le traduzioni in
lingue diverse.
Nella nota finale, Felici fa presente con umiltà che il suo lavoro (meditato
e accuratissimo) presenta “insormontabili imperfezioni” e offre al lettore solo
“un’ipotesi di avvicinamento al testo lezamiano”, riconfermando la difficoltà di
una scrittura che oppone al traduttore una tenace resistenza. Difficile, dunque,
il romanzo; ed ermetico, a tratti quasi indecifrabile. Ma supremamente stimolante,
proprio per via dello spaesamento provocato da un’apparente mancanza di coordinate,
che consente di evocare l’ironica metafora del naufragio cara a Ortega y Gasset
(insieme a Maria Zambrano, un punto di riferimento costante per Lezama): un naufragio
dal quale ci si salva perché “come il pesce può naturalmente nuotare, l’uomo
può naturalmente pensare”.
Il mare lezamiano, quel Paradiso che è stato via via accostato – con
un certo fastidio da parte dell’autore, che giustamente si sapeva unico – alle opere
di Proust, di Joyce, di Musil, è composto da quattordici capitoli divisi in due
parti: la prima racconta l’infanzia e l’adolescenza del protagonista José Cemí,
figlio asmatico e malaticcio, come Lezama, di un alto ufficiale dell’esercito cubano
morto troppo giovane, e di una madre adorata che per José, espulso dal paradiso
dell’infanzia e destinato a entrare in quello della poesia, rappresenterà una sorta
di Beatrice; proprio come Lezama, inoltre, Cemí è un solitario che legge avidamente
e cresce in una famiglia di sole donne, colte e indipendentiste, devote al culto
di Martí e della buona tavola. E se nei primi quattro capitoli si condensano ricordi
d’infanzia di sapore autobiografico, nei successivi un salto temporale conduce alle
storie dei genitori, dei nonni, dello zio morto precocemente: vite piene di presagi
che annunciano le prove cui José dovrà sottostare. E poi la scuola, la scoperta
dell’eros attraverso gli espliciti accoppiamenti senza distinzioni di sesso di un
compagno dal pene leggendario: una fabulazione iperbolica e ironica, ben diversa
dalle discussioni storico-filosofico-morali sull’omosessualità e sull’originaria
androginia del genere umano, che il protagonista affronterà nella seconda parte
del romanzo, dedicata agli anni dell’università e al legame con Foción e Fronesis
(l’uno assennato ed eterosessuale, l’altro inutilmente innamorato dell’amico), fino
alla comparsa della misteriosa figura di Licario, guida e padre spirituale, che
aprirà a José la via del sapere poetico (un percorso propiziato, nel romanzo postumo
ed incompiuto Oppiano Licario, dall’unione sensuale e mistica con Ynaca Eco,
la sorella del maestro). Il tutto sullo sfondo di un’isola e di una città dalla
quale lo scrittore si allontanò brevemente solo due volte, e che viene descritta
secondo il più puro metodo lezamiano, cioè rileggendo ogni cosa alla luce dell’imago
che definisce la realtà (non il mondo com’è, dunque, ma come lo ricrea, lo rivela
o lo orienta l’immaginazione).
Popolato da oltre duecento personaggi, il romanzo adotta repentini e inaspettati
mutamenti di luogo, non rispetta la successione temporale degli eventi, sostituisce
di punto in bianco la voce narrante (ma riserva all’autore il ruolo di demiurgo,
e a buon diritto, visto che i personaggi parlano e pensano come lui, sono tutti
Lezama Lima), inserisce aneddoti o digressioni sui più diversi argomenti, spesso
in forma di dialoghi platonici o dibattiti memori della tradizione medioevale, e
infine abbatte le dighe della logica con un fiume di metafore, simboli, sogni, allucinazioni,
sensazioni tattili, visive, olfattive, elementi di una festa del corpo che, tuttavia,
non ignora mai la presenza della morte, e spesso la corteggia. Come un albero i
cui rami continuano a espandersi in tutte le direzioni, Paradiso appare inarrestabile,
quasi fuori controllo, composto com’è da magistrali frammenti che continuano a sovrapporsi,
nonché avvolto nelle spire di un linguaggio denso, proliferante e ricco di neologismi
e invenzioni; ma la fastosa sovrabbondanza che per Lezama era quasi un dogma, e
che lo ricollega al barocco immaginoso della “espressione americana” (così lontano
da quello ben meditato di Alejo Carpentier, altro grande, ma ben più disciplinato,
esponente della letteratura cubana di quegli anni), non deve ingannare: in realtà,
è lui stesso a dirlo, il romanzo è un punto di arrivo che “ordina il caos, lo distende
sotto le nostre mani perché possiamo accarezzarlo”. L’intero universo di Paradiso
è retto da quello che Lezama chiama il suo Sistema Poetico, e che è andato elaborando
per anni attraverso le opere precedenti: versi mirabili in cui trovano spazio idee
filosofiche e religiose, pagine e pagine di saggistica che, per profusione di immagini
e visioni, confinano con la narrativa, il tutto cementato da metafore che alimentano
una “immaginazione retrospettiva” capace di imporsi al ricordo, alla realtà, alla
Storia.
Tutto questo converge verso Paradiso, che diventa così il culmine, l’espressione
compiuta di una poetica capace di trasformare personaggi ed episodi in pure funzioni
al suo servizio, e che attinge al sapere strabordante di un lettore autodidatta
(Lezama, così attratto dalla letteratura, dovette laurearsi in legge per mantenere
se stesso e l’amatissima madre) totalmente immerso nella cubanità criolla
e non immemore dell’eredità spagnola (Gongora e Cervantes innanzitutto), ma pronto
a far sue le più remote tradizioni culturali, dai precolombiani alla Grecia all’Oriente
all’Europa. A proposito di questa inclusione avida e senza limiti e dell’eterogenea
erudizione che ne è derivata (nel romanzo trova posto ogni cosa, dal misticismo
al mito, dalla teologia ai bestiari medioevali, dalla filosofia alla gastronomia,
dalla letteratura novecentesca a quella classica) molti hanno rilevato le inesattezze
di Lezama, la sua noncuranza citatoria, la fantasiosa ortografia di nomi e parole
straniere.
Piccolezze irrilevanti, dice Julio Cortázar nel suo saggio Per arrivare a
Lezama Lima (se ne può leggere un estratto nella edizione Sur di Paradiso),
rispetto alla profondità e alla magnificenza di un romanzo epocale e controcorrente.
E aggiunge che questo scialo di sapere impreciso ed eterodosso dimostra la seducente
ingenuità di Lezama, la sua libertà esplosiva mai paralizzata da timori accademici.
Ma viene da pensare anche a un’altra lettura, quella di Severo Sarduy, scrittore
cubano che si è proposto a suo tempo come l’erede naturale di uno scrittore senza
eredi qual è Lezama, eleggendolo a caposcuola di un’avanguardia neobarocca che il
“maestro”, probabilmente, non avrebbe del tutto apprezzato. È proprio a Sarduy,
comunque, che si devono pagine acute sugli errori e le storpiature sfuggiti alla
sapienza lezamiana: perché non di errori e storpiature si tratta, dice Sarduy, ma
di una appropriazione, di una deformazione funzionale al suo narrare, alla sua lingua
sensuale, tattile, non aliena al grottesco, all’eccesso e alla parodia tipici del
barocco. Su chi dei due abbia ragione si potrebbe, è ovvio, discutere all’infinito,
e, con ogni probabilità, inutilmente. Anche perché, come ha osservato Sarduy in
anni lontani, ancora oggi “Lezama è un continente sconosciuto che si comincia appena
a intravedere in lontananza”.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nel novembre del 2016