La regale estraneità di Juan Rodolfo Wilcock
“Sono nato a Buenos Aires nel 1919. Ho cominciato a parlare in francese, vicino
al Chateau de Chillon, nel sud della Svizzera; ho imparato lo spagnolo a Londra,
e nel golfo di Patagones mi hanno insegnato a leggere e a nuotare. A undici anni
sono entrato al Colegio Nacional dove ho imparato l’inglese, l’italiano, la Storia
e le Scienze Naturali; a diciassette anni mi sono iscritto alla Facoltà di Ingegneria,
dove più tardi mi sono laureato, come quasi tutti gli studenti che vi si iscrivono;
a diciassette anni ho imparato il tedesco e a suonare il piano. A vent’anni ho cominciato
a scrivere, con una vocazione debolissima, ma forse irresistibile”. Così Juan Rodolfo
Wilcock riassume la sua vita su richiesta di César Fernandez Moreno, curatore di
un’antologia di poeti argentini, La realidad y los papeles, pubblicata a
Madrid nel 1967: una biografia minima ma rivelatrice, in cui risalta il disinvolto
muoversi tra idiomi e paesi diversi, come se lo scrittore (uno dei “più grandi e
più strani” del XX secolo, lo definisce Roberto Bolaño in Tra parentesi. Saggi, articoli e discorsi (1998-2003), Adelphi 2009) volesse dichiarare
la propria appartenenza a un universo culturale vasto, fluido e soprattutto ibrido.
A quell’epoca Wilcock, figlio di un inglese e di un’argentina di origine svizzera,
risiedeva in Italia da tempo: nel 1957, dopo diversi e alterni soggiorni in Europa,
dovuti innanzitutto al suo profondo rigetto per il peronismo, si era stabilito a
Roma, e insieme all’Argentina – dove a vent’anni aveva pubblicato il primo dei suoi
sei libri di poesie, segnate dalla predilezione per i romantici inglesi e tedeschi,
e fondato “Verde Memoria”, una rivista poi soppiantata dalla più audace e personale
“Disco” – si era lasciato alle spalle anche lo spagnolo, decidendo di scrivere in
un’altra lingua, l’italiano. Una scelta radicale che esprime delusione e protesta
furibonda nei confronti del paese natale, ma che è anche una sfida, un’audace rivendicazione
del suo sentirsi uno scrittore europeo, un modo per infrangere gli orizzonti di
una cerchia elitaria e in fondo conservatrice come quella della rivista Sur (intorno
alla quale il giovane poeta gravitava, ma con divergenze via via più profonde),
e per fondare, da lontano, nuove strategie narrative.
Se in Argentina era stato poeta lirico, in Italia diventa narratore originalissimo,
recensore così sarcastico e sprezzante da attirarsi una quantità di inimicizie,
e infine grande traduttore che “abita” le quattro lingue di cui è padrone e trasferisce
dall’una all’altra il proprio modo di leggere un testo. L’adozione di una nuova
lingua segna dunque il passaggio ad altri generi, la nascita di romanzi (o meglio
di testi così frammentari, aperti e proliferanti da poter essere definiti antiromanzi)
quanto di racconti brevi che sfiorano l’avanguardia senza farne parte e impiegano
materiali depurati da ogni localismo. La qualità della sua prosa, la singolarità
di un’estetica che, pur senza aderirvi né condividerli, osserva e ingloba la cultura
popolare, i media, la società dei consumi, e infine la capacità di mettere a nudo
la vera e inquietante natura di oggetti comuni e gesti consueti, le ritroviamo
adesso nella nuova edizione di Lo stereoscopio dei solitari – le due precedenti
risalgono al ’72 e all’89 – finalmente riproposto da Adelphi, l’editore che ha pubblicato
la maggior parte delle opere di Wilcock, oggi in gran parte introvabili.
I sessanta racconti che compongono il libro, di una perfezione formale e linguistica
senza sbavature, si collegano armoniosamente ad altri testi dell’autore, anch’essi
costruiti a partire da narrazioni così brevi e compatte da imparentarsi col frammento
o con la voce enciclopedica, e unite di volta in volta da un esile filo conduttore:
la pratica delle più improbabili discipline scientifiche o filosofiche nelle biografie
immaginarie di La sinagoga degli iconoclasti (1972), una mitologica deformità
ne Il libro dei mostri (1978) e, nel caso di Lo stereoscopio dei solitari,
la solitudine più impenetrabile (ossessione personale di Wilcock, che in un suo
verso dice: “… dolcemente/ non voglio vedere nessuno”, e che procurò sempre di avere
un rifugio da eremita, nella campagna intorno a Buenos Aires come in quella romana,
dove morì a sessantaquattro anni per un attacco di cuore.
La caratteristica comune ai racconti è l’innesto del mostruoso e dell’assurdo,
della diversità e della follia, su una quotidianità riconoscibile quale semplice
maschera del caos. Un caos che è in realtà un ordine di altro genere, pronto ad
accogliere l’esistenza di una gallina gigante, raffinata lettrice editoriale, o
di un centauro eremita, che non ha mai visto un suo simile e dipinge cavalli spaventosi.
Creature degne di un bestiario medioevale, che richiamano leggende e miti (nonché
un sapere scientifico spesso travasato in bizzarrie e curiosità da giornale popolare),
ma si annidano in condominii piccolo borghesi, in metropoli e cittadine, in grotte
e cave di periferia: luoghi che potrebbero trovarsi ovunque e che sembrano nati
dalla sovrapposizione di spazi arcaici ad altri contemporanei o futuribili.
Un italiano elegante, esatto, raffinato e senza tempo, lingua “artificiale”
e quindi sorvegliatissima, disegna figure mostruose con un’inventiva inesauribile,
evocando Bosch o i pittori surrealisti, mentre dietro lo humor nero, profuso a piene
mani, si delinea un attacco feroce a conformismi e dispotismi di ogni genere, accompagnato
dall’insofferenza per i luoghi comuni e la banalità. Si è parlato, a proposito di
Wilcock, di un gusto per la crudeltà che gli è valso l’accostamento a Silvina Ocampo,
sua grande amica e a lui ben più affine di Bioy Casares e Borges, il quale, del
resto, non aveva in simpatia il caustico giovanotto, troppo incline a contraddirlo.
E un’esasperata crudeltà è, in effetti, la chiave di Parsifal, i racconti del
caos (Adelphi 1974), scritto in spagnolo e poi autotradotto e rimaneggiato,
che per la sadica ferocia di alcune storie può ricordare El fiord di Osvaldo
Lamborghini. Ma altrove, e in particolare in Lo stereoscopio…, la perfidia,
il sarcasmo e perfino la violenza e il cannibalismo (ombra swiftiana nel suo romanzo
L’ingegnere, pubblicato da Rizzoli nel ’75) sono temperati da una percettibile
compassione. Al contrario che in Lamborghini, la crudeltà non vuole provocare rifiuto
o disgusto, ma è funzionale all’espulsione di ogni mitologia sentimentale ed ideologica.
E altrettanto discutibile appare l’inscrizione della narrativa di Wilcock nel genere
fantastico: la sua carica innovativa, infatti, va oltre i generi e si nutre di contaminazioni
continue ed eterogenee, tanto che sarebbe forse più giusto considerarlo, come sostiene
Hector Bianciotti, un autore postfantastico, convinto che: “Sostituire le orribili
(perché incomprensibili e incomprensive) persone che ci circondano con essere immaginati,
comprensibili e comprensivi, dunque piacevoli, è privilegio non solo dei pittori
(se ancora esistono, nascosti) ma anche degli scrittori importanti e felici. Gli
scrittori mediocri soffrono, quasi come se non fossero scrittori, costretti viziosamente
a riprodurre gli esseri che già conoscono: il più delle volte, degli esseri umani
(che c’è a non inventare la propria moglie, i propri angeli e demoni?)”.
Scrittore unico ed eccentrico, che è impossibile situare all’interno di un canone,
Wilcock ha pagato la sua regale estraneità, il suo volontario collocarsi ai margini,
con la relativa indifferenza dei lettori – ancora limitati a un ristretto numero
di entusiasti che periodicamente lo riscoprono – e di quella che si usa chiamare
“la critica”. “La quale critica” ha scritto in uno dei pungenti articoli, raccolti
nel 2009 in Il reato di scrivere, a cura di Edoardo Camurri “consisteva e
consiste universalmente nel rimproverare a un autore di non aver fatto quel che
non intendeva fare”.
Una versione abbreviata di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel mese di aprile 2017