Nona Fernández
Le anime in pena di Nona Fernández
“Percorro un fiume scuro. Un nastro sporco che mi trascina lentamente, mi culla
con amore e mi invita a dormire e abbandonarmi del tutto al suo cammino fecale.
Gabbiani smarriti mi seguono e si posano ai miei piedi scavando nelle scarpe rotte,
beccandomi le dita, le unghie sudice. Sulla riva un ubriaco lancia una bottiglia
vuota che mi sbatte contro e va in frantumi. I vetri raggiungono il viso, un filo
di sangue mi scorre sulla fronte. Non è vero che i morti non sentono. Potrei elencare
ogni singola cosa che questa carne in decomposizione continua a percepire”.
A raccontare il viaggio della cassa scoperchiata in cui giace un corpo ormai
disfatto, e tuttavia senziente, è la protagonista di Mapocho (gran vía edizioni,
pag. 210, e. 16; la bella traduzione è di Stefania Marinoni), il complesso romanzo
che ha rappresentato, nel 2002, l’esordio narrativo di Nona Fernández, nata nel
1971 a Santiago de Chile e considerata una delle autrici latinoamericane più interessanti
della sua generazione. Com’è evidente sin dalle prime righe, la voce appartiene
a una ragazza morta, la Bionda, trascinata via dal fiume che taglia in due la capitale
cilena: una voce che lascia subito il posto a quella di un narratore impersonale,
pronto, nelle ultime pagine, a farsi sostituire da un’altra ombra senza pace, quella
dell’Indio, il fratello della Bionda.
La loro storia parla di un esilio condiviso, di un ritorno obbligato, di un
amore incestuoso, di terribili perdite (quella del padre Fausto, che i due credono
ucciso dai militari golpisti, e quella del proprio paese) e, soprattutto, di altrettanto
terribili inganni, che si identificano con il tradimento paterno: perché Fausto
in realtà è ancora vivo e, complice del regime, ha accettato di riscrivere la Storia
e di disegnare un’identità nazionale a una sola dimensione, bianca, eroica, civilizzatrice.
L’enigma familiare che l’Indio e la Bionda cercano di sciogliere diventa, allora,
un viaggio allucinato che salda il presente a epoche remote: tutto l’arco della
storia cilena, dall’arrivo dei colonizzatori fino alla post-dittatura, viene scomposto
e disarticolato grazie a immaginosi, continui “si dice” che favoriscono l’emergere
di detriti di ogni genere, una montagna di spazzatura sepolta o nascosta, in cui
sono inclusi innumerevoli corpi massacrati e variamente smaltiti. E anche lo spazio
urbano è in qualche maniera rimodellato da questa versione “sporca”, sessuata e
oltraggiosa della Storia, dominata dal desiderio, che fa di Santiago una città-personaggio,
un corpo pieno di ferite, composto da strati diversi e percorso da un fiume-vena.
Un romanzo potente, originale e insolito, una fabulazione irridente e furibonda,
con accenti volutamente melodrammatici, scatologici, mitici e leggendari, e infiniti
riferimenti testuali: per esempio l’immagine della nazione come casa, allegoria
che rimanda al capolavoro di José Donoso, Casa de campo; le ombre inquiete
dei protagonisti, a lungo inconsapevoli della propria morte, che ricordano il Pedro
Paramo di Juan Rulfo o La amortajada della cilena Maria Luisa Bombal,
citata in epigrafe; le leggende raccolte da Eduardo Galeano in Memoria del fuoco,
riflesse nei racconti di Fausto ai figli bambini; certi lampi del linguaggio, che
si rifanno alle invettive fiorite di Pedro Lemebel.
A partire da Mapocho, Fernández ha sviluppato un progetto narrativo profondo
e coerente, arricchito negli anni da titoli in cui vengono riproposte alcune costanti,
come la memoria collettiva filtrata attraverso quella più intima e personale, l’accumularsi
dei brandelli di una realtà trasfigurata, la rivisitazione del passato a partire
dai margini, la passione per tutto quanto è ignorato e rimosso, la ricerca di risposte
agli interrogativi sorti durante un’infanzia e un’adolescenza vissute sotto la dittatura,
ma anche nel corso di una transizione alla democrazia mai davvero conclusa. Il tutto
filtrato attraverso una scrittura sempre più pulita, concreta e visiva, segnata
dalla pratica teatrale dell’autrice (che è anche commediografa, attrice e regista)
e la cui evoluzione è evidente negli altri suoi testi tradotti in italiano, ossia
Space invaders e l’appena uscito Chilean Electric, racconti lunghi
(o romanzi minimi) pubblicati da Edicola Edizioni, una delle nostre più piccole
e curiose case editrici, che traduce scrittori cileni poco noti in Italia, ma davvero
notevoli, come Alejandra Costamagna o Claudia Apablaza.
Entrambi i titoli, insieme ai romanzi di più ampio respiro come Fuenzalida,
Av. 10 de Julio Huamachuco e il recentissimo La dimensión desconocida,
sembrano comporre un ritratto sorprendente del Cile negli anni di Pinochet, visto
dalla prospettiva di una memoria in movimento: qualcosa che Fernández insegue facendosi
avventurosamente largo in una selva di immagini, ricordi, menzogne, impressioni,
luci che si accendono all’improvviso e ombre così profonde che niente, se non l’immaginazione,
riesce a penetrarle.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2017