Liliana Colanzi
Liliana Colanzi, la parola è una tigre
“Diceva mio nonno che ogni parola ha il suo padrone e che una parola giusta
fa tremare la terra. La parola è un fulmine, una tigre, un uragano, diceva il vecchio
guardandomi con rabbia, mentre si serviva alcol di farmacia, ma guai a chi usa le
parole alla leggera”.
Così comincia Chaco, uno degli otto racconti racchiusi in Il nostro
mondo morto (gran vía, e. 13,50), uno dei libri più belli che ci siano arrivati
quest’anno dall’America latina: centoventi pagine assai ben tradotte da Olga Alessandra
Barbato, otto storie originali e potenti, e infine la scrittura di una giovane autrice,
Liliana Colanzi, che sulla “parola giusta” deve aver lavorato a lungo, riuscendo
ogni volta a trovarla e a usarla con estrema consapevolezza.
Nata nel 1981 proprio nel Chaco, a Santa Cruz de la Sierra, nella regione in
cui più numerose erano le leggendarie misiones dei gesuiti, Colanzi ha finora
pubblicato due libri di racconti, anzi due e mezzo, perché La Ola, uscito
in Cile nel 2014, unisce a quattro testi della sua prima raccolta, Vacaciones
permanentes, altri all’epoca inediti e che ora sono confluiti in Il nostro
mondo morto: un gioco involontario ma significativo, questo del filo che lega
un libro all’altro, come a testimoniare la coerenza e la compattezza di un discorso
narrativo, ma anche a segnalarne l’evoluzione.
Nel suo secondo libro, già tradotto negli USA e in Francia, Colanzi riprende
e sviluppa alcune sue costanti (le rivolte dell’adolescenza, le madri spietate,
la fuga, la lontananza, la morte, l’alterità indigena, il legame con l’infanzia,
il contrasto tra il mondo urbano e quello rurale), intrecciandole a temi nuovi e
costeggiando spesso un fantastico asciutto e inquietante. L’esplorazione della violenza,
della marginalità e di una strisciante follia si incarna in bambini, indios, vagabondi,
personaggi che interpellano invano una realtà vacillante, mentre miti, sogni e visioni
riemergono in momenti e luoghi imprevedibili come un viaggio in bus o in taxi, o
in mezzo al traffico cittadino, e si confondono con immagini e profezie del futuro.
La quotidianità assume sfumature sinistre, soprannaturali: un bar parigino ospita
un cannibale; nel buio di un cinema, un diabolico “occhio” assiste alla prima, desolata
eppure esplosiva esperienza sessuale di una ragazza; nella sua piccola bara, un
cadavere infantile continua (forse) a respirare; una invisibile Onda, perpetuamente
in agguato, scatena nel gelo del nord un’epidemia di suicidi e insegue la protagonista
fino alla città tropicale dove suo padre sta morendo; in un’astronave approdata
su Marte, una ragazza consuma la sua crisi sentimentale e rimpiange la rinuncia
alla maternità.
Di racconto in racconto, l’autrice azzarda con successo una doppia ibridazione;
la prima è quella tra generi – la fantascienza, il gotico, le storie del terrore
– rivisitati con perizia, e a volte solo evocati con lievi tocchi e immagini di
grande suggestione (la ragazzina india abbagliata in pieno deserto dalla rivelazione
dell’universo, tra omini verdi e cerimoniosi, oppure la giovane scrittrice alla
finestra, che intravede i suoi personaggi al di là dal vetro). Il secondo “innesto”,
invece, è quello di una recuperata “bolivianità” sul cosmopolitismo comune a tanti
scrittori latinoamericani sradicati ed erranti (la stessa Colanzi, che ha studiato
a Cambridge e alla Cornell University, vive e lavora negli Stati Uniti, come suo
marito Edmundo Paz-Soldán o come i bravissimi Rodrigo Hasbún e Giovanna Rivero,
per restare in ambito boliviano), e comunque nutriti di cinema, letture e musica
a diffusione planetaria.
“Non ho avuto piena coscienza di quello che significava essere boliviana o latinoamericana,
finché non ho lasciato il paese. Vivere fuori dalla Bolivia mi ha aiutato a volgere
lo sguardo su atteggiamenti e convinzioni che erano nell’aria mentre crescevo e
che nessuno metteva in discussione (il razzismo, il classismo, il machismo), e a
osservarle con stupore, ma anche con grande curiosità”, ha detto Colanzi in un’intervista,
e i frutti di questo sguardo sono ben evidenti in "Il nostro mondo morto",
in cui affiora una Bolivia diversissima da quella di cui ci viene abitualmente rimandata
l’immagine, sospesa tra i luoghi comuni di perdute mitologie rivoluzionarie, del
sottosviluppo e dell’attuale populismo “caudillista”.
Colanzi non intende presentare la Bolivia a chi non la conosce, né denunciare
o analizzare esplicitamente i suoi problemi e le sue contraddizioni, e meno che
mai seguire le orme del canone letterario nazionale (il suo background è, del resto,
sofisticato quanto ampio, e va ben oltre i confini boliviani), nonostante l’aperto
omaggio a Jaime Saenz che conclude l’ultimo racconto. Si avvicina al proprio paese,
piuttosto, come a un magnifico serbatoio colmo di culture, lingue, storie, cosmogonie,
piani temporali che si sovrappongono e si intersecano, e al quale si può attingere
all’infinito, per estrarne materiali che vanno a mescolarsi con quelli della più
“globale” contemporaneità.
È così che Colanzi ci offre, oltre a una fabulazione suggestiva e costruita con stupefacente sicurezza, l’obliquo, insolito ritratto di una Bolivia plurale, fatta di voci e tradizioni diverse, che è parte di lei: un paese tutto interiore legato a incubi, nostalgie, esperienze e memorie intime e personali, ma visto con sufficiente distacco da consentire la presenza di percettibili coloriture politiche. E, non ultimo tra i pregi del libro, Il nostro mondo morto è una tra le prove letterarie di questi ultimi anni che più apertamente ci spinge a una riflessione su che cosa significa, oggi, essere uno scrittore latinoamericano. Anche se, va detto, questa era forse l’ultima tra le intenzioni di Liliana Colanzi.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’agosto del 2017