Una donna nuova
Nel dicembre del 1983, in un’Argentina appena uscita dalla dittatura apparve
Alfonsina, una rivista quindicinale fondata da Maria Moreno: pagine che rivelavano
l’influenza del più audace femminismo europeo e miravano a ridefinire i ruoli di
genere, ma anche ad affrontare i più spinosi temi del presente, contando tra l’altro
sull’insolita collaborazione di alcuni scrittori disposti a nascondersi dietro pseudonimi
femminili, come Rosa L. de Grossman (Néstor Perlongher), María de la Cruz Estévez
(Fogwill) o Rosa Montana (Martín Caparrós). Ci fu chi considerò il nome della rivista
un omaggio al presidente eletto dopo il ritorno alla democrazia, Raúl Alfonsín,
ma in realtà l’intenzione era quella di evocare una grande figura della mitologia
nazionale, seconda soltanto ad Evita: Alfonsina Storni, poetessa, giornalista, drammaturga,
insegnante, nata nel Canton Ticino nel 1892, arrivata in Argentina a tre anni e
morta suicida nel 1938.
La scelta di quel nome da parte di una rivista così sofisticata confermava la
rivalutazione critica di un’autrice amatissima, a lungo confinata in un territorio
letterario ambiguo, e sembrava anticipare gli studi e le interpretazioni di quanti,
a partire dagli anni ’90, hanno cercato di diradare le nebbie del mito tragico cresciuto
attorno alla biografia di Alfonsina, che si era sovrapposto, fino a sostituirla,
all’analisi di un’opera composta da otto volumi di versi, commedie e brillanti “farse
pirotecniche”, e una notevolissima quantità di articoli, reportages e cronache apparsi
su quotidiani e riviste. Una parte di questa produzione giornalistica a lungo dimenticata
ci viene ora proposta in Cronache da Buenos Aires (Casagrande, pag. 152,
e. 18.00, traduzione di Marco Stracquadaini), un’antologia curata dalla studiosa
svizzera Hildegard Elisabeth Keller, che ha scelto trenta testi pubblicati fra il
1919 e il 1921 sul settimanale La Nota e il quotidiano La Nación, corredandoli di
un’ampia prefazione: un primo assaggio della prosa di un’autrice tradotta in italiano
solo sporadicamente, nonostante sia tra i classici della poesia latinoamericana
al femminile, accanto a Gabriela Mistral e all’uruguayana Juana de Ibarbourou.
Rappresentata fin troppo spesso come un’eroina da melodramma, Alfonsina fu in
realtà una “donna nuova”, in largo anticipo sui tempi: cresciuta tra Rosario e piccoli
paesi della provincia argentina, a vent’anni si trasferì da sola a Buenos Aires,
senza un soldo e incinta di un uomo sposato, riuscendo a cavarsela con lavoretti
di ogni genere, finché, dopo la pubblicazione del primo libro di versi nel 1916,
arrivarono gli incarichi di insegnante e le collaborazioni con i giornali. Tra mille
problemi economici (rimase povera per tutta la vita) e continui traslochi, fu l’unica
donna a frequentare le riunioni degli scrittori e critici raccolti intorno alla
rivista Nosotros e al gruppo Anaconda di cui facevano parte Leopoldo Lugones e Horacio
Quiroga, suo grande amico e forse amante, e riuscì a conquistarsi quasi a forza
uno spazio tutto suo, grazie a versi che parlano del desiderio femminile, del diritto
di usare il proprio corpo liberamente, della doppia morale che pretende dalle donne
una virtù immacolata, mentre concede all’uomo ogni trasgressione.
Considerata “peccaminosa” da alcuni, recensita con benevolenza condiscendente
da altri, disprezzata dai redattori della rivista Martín Fierro (Borges la chiamava
comadrita e trovava abominevoli le sue poesie), per gli intellettuali dell’epoca
era una modesta poetisa – termine vagamente dispregiativo, rispetto al più
nobile poeta –, di scarsa cultura e imbevuta di retorica tardo-romantica, “pacchiana
perché non sa scrivere in altro modo”, nota Beatriz Sarlo nel suo saggio Una
modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 (Quodlibet 2005), in disaccordo
con una parte della critica attuale, che vede in Alfonsina la singolare capacità
di dare valore poetico alle espressioni correnti e al linguaggio “basso”, oltre
a una discreta abilità nella costruzione metrica. Ed è sempre la Sarlo a osservare
che, grazie alla forma facile e accessibile della sua poesia, Storni riuscì a proporre
con le prime sei raccolte (nelle ultime approfondì una esigente ricerca formale,
allontanandosi dai suoi consueti lettori), contenuti del tutto nuovi e in qualche
modo rivoluzionari a un vastissimo pubblico, diverso da quello dei circoli intellettuali,
riscuotendo un immenso successo e diventando una figura estremamente popolare.
Socialista e sostenitrice del suffragio femminile, si rifiutava di essere zittita
e, parlando di sé, parlava per tutte le donne, rimproverandole e spronandole allo
stesso tempo: un atteggiamento evidente soprattutto nelle cronache, brevi saggi
di giornalismo narrativo che sembrano anticipare le Aguafuertes scritte nel
decennio successivo da Roberto Arlt (un altro outsider letterario), che come lei
raccontava e in un certo senso incarnava la modernità urbana; tutti e due, mescolando
realtà e finzione, ironia e invettiva, ritrassero abilmente la vita di Buenos Aires,
metropoli dove un nuovo benessere e lo sviluppo dell’industria editoriale garantivano
letture a buon mercato alle classi popolari, favorendo la nascita dello scrittore
di professione, che si guadagnava la vita con la penna e, all’occorrenza, scriveva
su commissione, adattandosi a spazi prefissati.
Alfonsina diede un taglio nuovo alle rubriche femminili ormai presenti da tempo
in tutti i giornali, parodiandone maliziosamente lo stile; aveva accettato di occuparsene
soprattutto per ragioni alimentari, ma grazie a lei le puntate di Feminidades,
apparse su La Nota, e di Bocetos femeninos, firmate con lo pseudonimo maschile
di Tao Lao su La Nación, diventarono qualcosa che nessuno si aspettava: riflessioni
che svelavano l’opera di costruzione di un corpo femminile standard, uniformato
dalla moda e dall’acconciatura; ammonimenti sui rischi della caccia a un marito;
considerazioni ironiche sulla mascolinità “fossile” e le sue idee pietrificate.
Ma le cronache in cui Storni dava il meglio di sé erano quelle dedicate alla realtà
quotidiana delle donne, dalle signore eleganti alle sartine, dalle studentesse alle
immigrate, sempre pronte a illudersi anche se sottoposte alla pressione delle aspettative
sociali, costrette a scegliere tra silenzio e chiacchiera vuota, ritenute legalmente
incapaci e prive del diritto di voto. Catalogate per tipi o per mestieri, vengono
amabilmente prese in giro da Alfonsina, che le vede aderire senza farsi troppe domande
a immagini e modelli prestabiliti, inclusi quelli imposti dalla cultura di massa,
dal cinema alla musica alla stampa popolare, e le incita a riappropriarsi di se
stesse: “Le eroine”, “La perfetta dattilografa”, “L’impeccabile”, “Le crepuscolari”,
“La ragazza-pappagallo”, “Le manicure”, “Le professoresse”, sono solo alcuni dei
ritratti riuniti nella seconda parte dell’antologia, simili a istantanee o a figurine
di un vivace quadro impressionista.
Ogni cronaca dà conto, sotto la maschera di un linguaggio apparentemente morbido
e scherzoso, delle convinzioni dell’autrice e della sua ideologia, ma anche del
suo invito a riempire gli spazi che lei stessa lascia vuoti, per invitare le lettrici
a trarre le loro conclusioni. E sono proprio le cronache a svincolare definitivamente
Storni dalla logora convenzione che la voleva nevrotica, consumata da amori infelici,
depressa e delusa, affascinata dalla morte e predestinata al suicidio, mentre quella
di togliersi la vita con un ultimo tuffo in mare, dopo aver scritto un “antisonetto”
di congedo e due lettere al figlio Alejandro, era stata ancora una volta una scelta
di libertà. Torturata da un tumore ormai incurabile, Alfonsina aveva disposto di
se stessa come aveva sempre fatto e, che lo prevedesse o no, era diventata definitivamente
una leggenda.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel novembre del 2017