martedì 27 marzo 2018

Da leggere: César Aira



César Aira


Farsi mostro: l’artista e l’Altro 

“La brevità non è stata una scelta. È venuta da sé. C’è una certa densità in quello che cerco di fare: non si può prolungare per 200 pagine, non le reggerebbe”. Così César Aira ha risposto a una delle tre domande che sempre gli vengono poste: quella sulla brevità dei suoi libri, che – con rare eccezioni – vanno dalle trenta alle cento pagine, e che lui chiama novelitas o invenciones; quella sulla prolificità: quasi un centinaio di titoli in poco più di trent’anni, se alla narrativa si aggiungono una decina di saggi spesso notevoli, che includono un impressionante Diccionario de autores latinoamericanos, seicento pagine destinate a chi è “in cerca di tesori”; e la terza – il cui tono va dal perplesso all’estatico – sulla irriducibile bizzarria (o meglio, l’unicità) del suo progetto letterario.

Un progetto-puzzle – come ben sa chi conosce l’opera di questo autore nato nel 1949 a Coronel Pringles e da un cinquantennio residente a Buenos Aires, dove scrive ogni giorno seduto al tavolino dello stesso caffè –, che rimanda al surrealismo e all’avanguardia e non si affida alla solidità della trama o alla perfezione della prosa, ma al “procedimento”, alla fuga in avanti, all’uso sfrenato dell’assurdo, dell’ironia e dell’immaginazione. Aperte da incipit ingannatori, le storie mutano proditoriamente argomento e punto di vista, sembrano sbucare l’una dall’altra e sono abbandonate “quando smettono di cominciare”, ossia quando la novità e il divertimento di chi scrive vengono meno. Come certi testi di Copi, di Osvaldo Lamborghini o di Juan Emar, o le opere di certi pittori (primo fra tutti Duchamp, sul quale Aira ha scritto un saggio), sono esperimenti, giochi intellettuali, macchine per produrre stupore, paradossi calati in una scrittura trasparente e in forme sempre nuove: perché è l’azzardo della forma, oltre alle rutilanti invenzioni, a fare di Aira uno scrittore nuovo a ogni libro.

Nonostante sia oggi un autore di fama internazionale, cui la Penguin-Random House dedica un’apposita “Biblioteca” (contraddizione non da poco, diventare protagonista di un mercato editoriale al quale la sua scrittura ha sempre voltato le spalle), Aira è, tuttavia, poco tradotto in Italia: dopo Ema, la prigioniera, edito nel ’91 da Bollati Boringhieri, sono apparsi presso Feltrinelli e Sur solo sei titoli, avidamente accolti da un numero di lettori forse ristretto, ma entusiasta. Tanto più interessante risulta, allora, l’apparizione di Il pittore fulminato (Fazi, pp. 93, e. 16,00 nella traduzione davvero eccellente di Raul Schenardi), che possiede in sommo grado la densità proverbiale dell’autore: ricchissimo e complesso, suscettibile di infinite interpretazioni, il testo offre – nella sua apparente levità – immagini magnifiche, riflessioni sulla natura della rappresentazione e del procedimento artistico, o su questioni epistemologiche relative alla pittura e, per analogia, alla scrittura.

Per raccontare l’avventura argentina di Johann Moritz Rugendas, pittore tedesco vissuto nella prima metà del XIX secolo e influenzato dalle teorie di Von Humboldt sulla “fisiognomica della natura”, Aira sceglie un incipit in contrasto con la propria ripulsa per il romanzo storico, elargendoci un riassunto della storia familiare del protagonista, erede di una dinastia di artisti e “pittore viaggiante” che intende cogliere il carattere della natura di contrade remote (dopo quattro anni in Brasile e Messico, ne trascorse altri sedici in Cile e in altri paesi dell’America Latina). Il lettore viene così indotto ad aspettarsi uno dei tanti resoconti di viaggio ottocenteschi, dovuti ai tanti naturalisti ed esploratori europei che contribuirono a fondare nuove scienze, alimentarono il sogno coloniale e, per quanto riguarda l’Argentina, fornirono sostegno alla “Conquista del Deserto”, la colonizzazione interna che è tra i miti fondativi della nazione e della sua letteratura. Ma, di fatto, Aira usa il suo incipit “di genere” solo come provocazione, perché subito si dedica (come in Ema, la prigioniera e in La liebre, i suoi principali testi pampeani, cui vanno aggiunti El vestido rosa, Las Ovejas, Entre los indios e il recente Eterna Juventud) a demolire e parodiare il processo di costruzione dell’identità nazionale, insieme alla produzione culturale che lo accompagna.

Al pari degli altri suoi romanzi ambientati nella pampa (il “deserto” argentino che, oltre a fornire materiali inesauribili alla letteratura popolare quanto alla più sofisticata, compresi Borges e il sublime Juan José Saer di Le nuvole) o in Patagonia, anche questo sembra ribaltare e irridere le tesi espresse nel Facundo o civilización y barbarie di Domingo Faustino Sarmiento – del quale, tra l’altro Rugendas fu amico e corrispondente –, in cui la popolazione autoctona e meticcia viene descritta come barbara e oziosa, e le grandi pianure come un impedimento alla “civiltà” portata dagli europei. All’antinomia sarmentiana (che è anche quella tra la grande Buenos Aires e el interior, il vasto e solitario interno del paese), oppure alla trilogia di Estanislao Zeballos, che prelude alla conquista di un desierto popolato da primitivi quasi animaleschi, Aira sembra preferire, piuttosto, la curiosità impenitente e indagatoria dell’eccentrico Lucio V. Mansilla, contemporaneo di Sarmiento e autore di Una excursión a los indios ranqueles, nato da una concreta esperienza “sul campo”. E tuttavia, benché Il pittore fulminato si inquadri in un ambiente e in un’epoca ben precisi, rilegga personaggi realmente esistiti e rimandi a testi fondamentali della tradizione argentina, il romanzo rifiuta di organizzarsi in base a una logica storica di qualche tipo.

Se nella prima parte del viaggio che li porta oltre le Ande, nella pampa, lo sguardo di Rugendas e del suo giovane amico Krause riorganizza il paesaggio da una prospettiva esplicitamente coloniale, immaginando il sorgere di città e fortezze, a poco a poco il pittore (proprio come chi narra) è catturato dalla ricerca del “procedimento” capace di portarlo verso un’arte diversa, aliena ai precetti di Humboldt. E, mentre cavalca nella pampa devastata dalle cavallette, una sciagura gli apre infine le frontiere di un nuovo stile: un fulmine distrugge il volto di colui che si è specializzato nel ritrarre la fisionomia della natura. Rugendas è ora un mostro, costretto a nutrirsi di morfina per placare i dolori e le convulsioni (pur sapendo che in realtà l’incidente non fu così disastroso, Aira insiste su immaginarie conferme fornite dall’epistolario del pittore, a ulteriore parodia del tradizionale racconto di viaggio).

È allora che tutto cambia, portando Rugendas a un automatismo ossessivo e la sua matita a muoversi velocissima sulla carta per catturare ogni dettaglio. La sofferenza, le visioni indotte dalla morfina, il velo nero con cui si copre il viso per filtrare la luce, trasformano la sua percezione e la mettono alla prova durante il malón (la scorreria in cui gli indios si impadronivano di bestiame e donne) che gli permette di incontrarsi e in un certo senso di fondersi con l’Altro per antonomasia, l’irriducibile “selvaggio” che il nascente Stato-nazione aveva eletto a proprio nemico.

Tutta la seconda parte del romanzo è dedicata proprio al malón, a tratti simile a una violenta danza rituale, a tratti paragonabile a un’esibizione teatrale e quasi buffonesca: un caos simile a quello dei lineamenti del pittore, che all’inizio ritrae da lontano, ma poi si avvicina, “entra” nel quadro e finisce per farne parte, sedendosi attorno al fuoco tra gli indios stupefatti e ritraendoli con rapidità instancabile, come un fotografo che scatti delle istantanee.

Non è più l’europeo viaggiatore, l’estraneo perduto in terre lontane, ma appartiene anche lui a un mondo che ammette ogni diversità e si regge su un ordine di altro tipo. La distanza è annullata, l’opera nasce da un nuovo sguardo. E il fulcro del romanzo è, a questo punto, compiutamente svelato: un’immagine dell’artista che solo facendosi “mostro”, lasciandosi contaminare e devastare per congiungersi all’altro, può far nascere un’arte nuova, può intuire, osare, sperimentare. Può assolvere, insomma, al suo compito: andare oltre quella che chiamiamo realtà, creare qualcosa che prima non esisteva, o che, semplicemente, era invisibile ai nostri occhi. Ed è proprio questo, in effetti, che Aira ha tentato e tenta di fare con le sue innumerevoli novelitas.

  

Una versione ridotta di questo articolo è apparsa sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2018