Haroldo Conti
Un uomo senza barca non è completo
Il 19 maggio 1976, a meno di due mesi dal colpo di Stato che aveva dato inizio alla più sanguinosa dittatura della storia argentina, il generale Videla pranzò alla Casa Rosada con quattro ospiti alquanto insoliti: due celebrità letterarie quali Ernesto Sabato e Jorge Luis Borges, un autore modesto come Horacio Esteban Ratti, presidente della Società Argentina degli Scrittori, e un anziano gesuita, Leonardo Castellani, considerato vicino alla destra nazionalista e sospeso a divinis per l’eterodossa attività politica.
Citato, narrato e commentato infinite volte (nel 2015 il regista Javier
Torre gli dedicò addirittura un film, El almuerzo), l’incontro fu
denso di effetti per alcuni - a Borges, per esempio, costò l’assegnazione del
premio Nobel - o singolarmente povero di conseguenze per altri, come nel caso
di Sabato, che si mostrò molto ossequioso con il generale, eppure ricevette
anni dopo l’incarico di presiedere la Comisión Nacional sobre la
Desaparición de Personas e di redigere il rapporto Nunca más,
in cui espose l’ambigua teoria dei Dos Demonios.
Sul tono e i temi della conversazione circolarono da subito molte versioni,
e quando la rivista Crisis, diretta da Eduardo Galeano e chiusa di
lì a poco, volle intervistare i partecipanti, trovò un’unica persona disposta a
parlare: il cura Castellani, che, come gli altri invitati,
prima del pranzo aveva ricevuto svariate sollecitazioni a interrogare Videla
sulla sorte di Haroldo Conti, scrittore sequestrato due settimane prima e
incontrato un paio di volte dal vecchio prete nel seminario di Villa Devoto,
prima che la mancanza di autentica vocazione inducesse Conti ad
abbandonarlo. Il gesuita, l’unico a interpellare Videla in proposito,
raccontò che per lui il pranzo non significava nulla, a meno che ne derivassero
fatti concreti, come la riapparizione di Conti.
In seguito si disse che Castellani era riuscito a vedere lo scrittore
imprigionato e torturato e a dargli l’estrema unzione: una voce mai confermata,
ma entrata stabilmente a far parte del bozzolo di storie che avvolge Haroldo
Conti e che ancora oggi si sovrappone alla sua opera, nascondendola dietro l’assenza
fin troppo “presente” di un corpo mai
ritrovato. Che Conti sia ormai una leggenda argentina, non c’è dubbio alcuno:
il Centro Culturale della Memoria nella ex caserma Esma porta oggi il suo nome,
la sua casa sul fiume è diventata un museo, il cinque maggio di ogni anno si
celebra in suo onore il Giorno dello Scrittore Bonaerense. E a ricordarlo ci
sono documentari come Homo viator di Miguel Mato, o El
retrato postergado, di Andrés Cuervo, e poi saggi, libri di memorie,
mostre, omaggi che neppure lo strisciante negazionismo del governo Macri
oserebbe cancellare.
A restare a lungo nell’ombra, però, è stata la sua opera, finché l’editore
Emecé non ha riproposto in anni recenti una Biblioteca Haroldo Conti e l’editore
spagnolo Bartleby non ha in parte riscoperto i suoi libri, che rimangono quasi
sconosciuti in Italia, dove quella di Mascarò, il cacciatore solitario
(l’ultimo suo romanzo, uscito nel 1975 in Argentina e proposto da Bompiani nel
1983, in un’edizione ormai introvabile prefata da García Márquez) è stata
fino a oggi l’unica traduzione disponibile. Da pochi giorni, però, il primo e
il più noto dei romanzi di Conti, Sudeste, uscito in lingua originale
nel 1962, è in libreria nella bella traduzione di Marino Magliani (Exorma, pag.
217, e. 14,29) e permette finalmente di avvicinarsi a un autore che, in seno a
un canone contemporaneo in cui appaiono nomi come quelli di Saer, Puig o
Piglia, va forse considerato uno dei grandi, gloriosi “minori” ai quali Tomasi
di Lampedusa assegnava il compito di rendere “abitabile” la letteratura, di
formarne l’ossatura e di esprimere lo spirito del proprio tempo.
Tra i quattro romanzi e i due libri di racconti lasciati da Conti –
tutti notevoli e tutti meritevoli di traduzione e di
appassionata lettura – Sudeste è forse il più suggestivo. La vicenda di
Boga, il ragazzo che ha il nome di un pesce e che vive sul fiume e del fiume,
nasce dalla comune passione dello scrittore e del suo personaggio per la
distesa piatta e brillante dell’immenso e ramificato Delta del Paranà,
ingannevolmente immutabile, tra isole, distese di giunchi, barche che scivolano
in silenzio, presenze animali e vegetali che sfidano le percezioni umane con
apparizioni improvvise e suoni che scandiscono il tempo e definiscono lo
spazio.
Conti, che era nato a Chacabuco, un paesetto a duecento chilometri da
Buenos Aires, aveva trovato nel Delta il suo luogo dell’anima, dove le storie
(come quelle che gli narrava il padre, venditore ambulante e grande
affabulatore) nascono quasi da sole, in un vagabondaggio ozioso e continuo che
permette di volgere le spalle alla città, abbastanza vicina da poterne
intravedere la sagoma e respingerne senza rimpianti le convenzioni, le stesse
che lo scrittore descriverà nel suo En vida, romanzo con cui nel
1972 vinse in Spagna il premio Barral. Conti aveva scritto Sudeste
mentre costruiva con le proprie mani un piccolo veliero (“un uomo senza barca
non è completo”) con il quale avrebbe percorso il Delta dopo averlo conosciuto
dall’alto, quando, anni prima, aveva preso il brevetto di pilota. Dopo essere
stato seminarista, maestro rurale, camionista, cassiere di banca, professore di
latino, critico cinematografico, aiuto regista e sceneggiatore, marinaio (e poi
naufrago) su uno yacht, nel fiume e sul fiume si era riconosciuto, inserendosi
allo stesso tempo in una tradizione letteraria che comprende le aguafuertes
fluviales di Arlt, certe cronicas di Rodolfo Walsh
(amico e sodale di Conti e come lui desaparecido), i poemi di Juan
L. Ortiz, alcuni romanzi di Saer e innumerevoli altri scritti di autori più o
meno noti, risalendo fino a El Carapachay dell’imprescindibile
Sarmiento.
Territorio letterario, il Delta, per il quale tutti sono passati, ma che
forse solo Conti ha saputo restituire per intero, con un testo dove già si
riconoscono le costanti delle sue opere future: situazioni e luoghi periferici,
ignorati a favore della "centralità" cittadina; personaggi altrettanto
marginali, condannati o respinti da una società che ne ha modellato la sorte;
lo spezzarsi della relazione tra puer e senex che per
breve tempo garantisce qualche stabilità, come accade a Boga e al “vecchio” in Sudeste,
e a Milo e Silvestre nel bellissimo Alrededor de la Juala, del
1966; la ricerca della solitudine e del silenzio come forma di libertà; un
mondo in cui la natura, gli animali, gli oggetti acquistano connotati quasi
umani; lo scivolare verso una sconfitta che non è mai veramente tale, come
accade a Boga, contemplativo e fatalista, che si lascia vivere ed è risucchiato
per forza d’inerzia, dopo la morte del suo vecchio mentore, da una banda di
piccoli criminali, ma alla fine riesce a diventare tutt’uno con la sua barca
decrepita, a farsi pesce, a consegnarsi completamente al fiume.
Accompagnato da un linguaggio che da lirico diventa popolare e popolano,
con pochi dialoghi e molte descrizioni di un nitore visivo fuori del comune, Sudeste
sembra costruito per sequenze che sfumano una nell’altra e rivela la profonda
influenza esercitata dal cinema su Conti (la cui idea iniziale era, del resto,
quella di scrivere un copione cinematografico), oltre a non nascondere la sua
attenta lettura degli scrittori nordamericani contemporanei, da Faulkner a
Hemingway, ma anche di Camus e degli esistenzialisti.
Sostenitore della rivoluzione cubana e del Frente Antiimperialista
por el Socialismo (e coerente al punto da rifiutare una borsa di
studio Guggenheim, “una delle forme più sottili di penetrazione culturale dell’imperialismo
nordamericano in America latina”), Conti era tuttavia convinto che “l’arte è il
regno della libertà pura, non può subire imposizioni estranee all’arte stessa (…).
Essere rivoluzionario è un modo di vivere, non un modo di scrivere”. Eppure Sudeste,
romanzo di iniziazione in cui non mancano metafore e allegorie, avventure e
utopie, trasmette una precisa visione politica e sociale della realtà, e le
storie che racconta ne sono intrise. Questa era la sua militanza, tanto è vero
che sulla parete dietro la sua scrivania si poteva leggere la frase: “Ecco il
mio posto di combattimento, e da qui non mi muoverò”. Era in latino, e i
sequestratori di Conti, che non seppero decifrare la scritta, non si curarono
di strapparla.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel mese di marzo del
2018