Osvaldo Bayer
L’anarchico pacifista che se n’è andato alla vigilia di Natale
Il Natale non gli
piaceva, non tollerava il consumo frenetico che lo accompagna, e inoltre era, da
sempre, un ateo convinto. Forse per questo molti dei suoi amici hanno considerato
una piccola ma significativa coincidenza il fatto che Osvaldo Bayer sia morto proprio
il giorno della Vigilia, nella modesta casa di Buenos Aires (Osvaldo Soriano l’aveva
ribattezzata El Tugurio), dove la sua famiglia si era trasferita nel 1935, quando
lui aveva otto anni e si arrabbiava per le canzonature dei bambini con cui giocava
a pallone.
Alemán, culo de
pan!, così lo chiamavano, perché suo nonno Josef Georg Payr
(un fabbro che, stufo di sentirsi storpiare il cognome, lo cambiò in Bayer, “come
l’aspirina”) era emigrato dal Tirolo nella provincia di Santa Fe, dove nel febbraio
del 1927 sarebbe nato Osvaldo, destinato a diventare uno degli intellettuali più
singolari e amati non solo del suo paese, ma di tutta l’America latina.
Costringerlo nei
panni troppo stretti di una qualsiasi definizione non è semplice, perché Bayer è
stato molte cose insieme: uno storico laureato in Germania, che al suo ritorno in
patria riuscì a portare alla luce vicende sanguinose e dimenticate come le stragi
di anarchici e peones nella Patagonia degli anni ’20; un giornalista che, come i
leggendari Rodolfo Walsh e Rogelio García Lupo, diede un senso nuovo alla professione
e smascherò senza timore i regimi di turno; uno sceneggiatore di film memorabili;
un insegnante, un traduttore, un romanziere (sia pure con un'unica opera, Rainer
y Minou, tragica storia d’amore tra una ragazza ebrea e il figlio di un nazista),
un commediografo, un appassionato tifoso del Rosario Central (sul calcio scrisse,
nel 1990, il saggio Fútbol argentino), e perfino l’autore delle parole di
tanghi come Severino, dedicato all’anarchico italiano giustiziato a Buenos
Aires nel 1931.
Fu, soprattutto,
un’ineguagliabile coscienza critica, un anarchico “pacifista a oltranza”, un difensore
dei pueblos originarios e delle lotte operaie e contadine, un politico senza
partito che dei partiti denunciò ogni bugia, ipocrisia e manchevolezza: considerava
il peronismo “un sistema che cambiò tutto per non cambiare assolutamente nulla”,
ai radicali non perdonò mai il massacro patagonico e la complicità con i latifondisti,
ai Kirchner – pur riconoscendone i meriti riguardo alla memoria e ai diritti umani
– rimproverò la mancata riforma agraria, lo scarso impegno nella lotta alla miseria,
la corruzione diffusa, mentre della presidenza Macri sottolineò il terribile sapore
di un “ritorno agli anni ’30”, a un passato oligarchico e autoritario aggiornato
dall’adesione alla più estrema dottrina neoliberista (ma, al minimo sospetto di
settarismo, nemmeno l’anarchia è stata esente dalle sue critiche).
I suoi libri, come
La Patagonia rebelde, Severino di Giovanni, el idealista de la violencia,
Los anarquistas expropriadores y otros ensayos, Rebeldia y esperanza,
Qué debemos hacer los anarquistas? (l’ultimo saggio, uscito nel 2014), nascono
da un accuratissimo lavoro di ricerca, analisi e documentazione, quanto da una coerenza
senza cedimenti, da un’etica rigorosa, da una presenza combattiva e costante a favore
di qualsiasi causa ritenesse giusta. E tutto questo Osvaldo Bayer l’ha pagato con
soggiorni in galera, con la condanna a morte da parte della Triple A (l’Alianza
Anticomunista Argentina, organizzazione paramilitare creata dall’uomo di fiducia
di Perón, il piduista López Rega) e, dopo il colpo di stato dei generali, con un
lungo esilio in Germania.
L’opera più importante
di Osvaldo Bayer riguarda la lotta dei peones contro i latifondisti, quasi tutti
inglesi, che in Patagonia avevano acquistato enormi estensioni di terreno. I lavoratori,
costretti a vivere in condizioni miserabili, si organizzarono sotto la guida degli
anarchici, in buona parte immigrati italiani e spagnoli, e nel 1920 proclamarono
uno sciopero che, divenuto aperta ribellione e duramente represso dall’esercito,
si concluse nel 1922 con il massacro di almeno millecinquecento persone. A questa
epopea dimenticata, Bayer dedicò quattro volumi, usciti fra il 1972 e il 1975 e
riuniti sotto il titolo di Los vengadores de la Patagonia trágica, poi sintetizzati
nel 2001 in un unico testo, La Patagonia rebelde, pubblicato in Italia da
Eleuthera nel 2010 a cura di Alberto Prunetti (il regista Héctor Olivera ne ha tratto
un film, Orso d’Argento a Berlino nel 1974, mentre del 2013 è la versione teatrale
dell’ultimo capitolo, intitolata Las putas de San Julián).
Non sarà inutile
ricordare che la Patagonia ribelle di Bayer, rievocata a partire da una lunga e
minuziosa investigazione condotta negli archivi e sul campo (l’autore visse diversi
anni a Esquel, dove fondò anche un giornale, La Chispa) è ben diversa da quella
di cui parla Bruce Chatwin nel suo In Patagonia,
sofisticato libro sulle avventure di un esteta in cerca del bizzarro e del pittoresco.
Non a caso Bayer aveva una pessima opinione di Chatwin, che considerava “un truffatore”,
sia per le molte inesattezze e invenzioni contenute nel celebre resoconto di viaggio,
sia per un punto di vista che giudicava “coloniale”, sia perché lo scrittore inglese
aveva attinto con troppa abbondanza e pochi scrupoli alla vasta bibliografia fornitagli,
durante un incontro a Buenos Aires, proprio dallo storico argentino. E l’antipatia
era ricambiata: nel 1977 Chatwin scrisse un’acidissima recensione del libro di Bayer,
definendolo “retorico e ideologico” e sostenendo, da fedele suddito di Sua Maestà,
che la verità sulla lotta contro i “legittimi” proprietari terrieri inglesi e il
successivo massacro era quella governativa, e che gli anarchici non erano veri sindacalisti,
ma bohémiens arruffapopoli.
Durante la dittatura,
La Patagonia rebelde e altri libri di Bayer finirono al rogo (“Bruciare i
libri è come abusare dei bambini” commentò lui. “Una vigliaccheria, perché non possono
difendersi”), mentre il film di Olivera, alla cui diffusione Perón aveva acconsentito
di malavoglia e con qualche censura, venne messo al bando; solo dopo il 1983 gli
uni e l’altro poterono circolare liberamente, proprio come il loro autore, che tornò
in Argentina dopo aver trascorso in Europa gli otto anni più difficili della sua
vita.
Da allora, e fino
all’ultimo giorno della sua vita, Bayer ha continuato a lavorare, a scrivere, a
viaggiare in tutto il paese battendosi per il diritto alla ribellione, per la giustizia
sociale, per reclamare contro gli espropri e l’esclusione di cui i pueblos originarios
sono vittime ancora oggi. Si è servito della Storia per cercare nel passato le radici
dell’ingiustizia presente, e non è un caso se, negli infiniti omaggi a lui dedicati
in questi giorni, tornano invariabilmente due parole: luchador e rebelde.
Una versione ridotta
di questo articolo è apparsa sul quotidiano il manifesto nel dicembre del 2018