Anni ’30 in Ecuador
“L’Ecuador è un
paese letterariamente invisibile. Può essere affascinante scrivere dall’invisibilità,
ma a volte uno si sente desolato, impotente”, ha affermato nel 2005 Javier Vásconez,
sconosciuto in Italia, ma autore di una vasta opera narrativa che gli è valsa il
premio Romulo Gallegos. Un’opinione, la sua, che sembra confermata dalla curiosa
burla ideata molti anni fa da José Donoso e Carlos Fuentes, creatori di un inesistente
scrittore ecuadoriano chiamato Marcelo Chiriboga: un ironico omaggio, secondo loro,
a una nazione rimasta esclusa dalla risonanza planetaria del Boom latinoamericano
(omaggio messo a frutto, del resto, perché non solo Chiriboga è diventato protagonista
di alcuni romanzi, ma nel 2017 il cineasta Javier Izquierdo gli ha dedicato il documentario
Un secreto en la caja, un falso straordinariamente “autentico” sulla vita
immaginaria del “più grande scrittore contemporaneo dell’Ecuador”, premiato al Festival
del cinema indipendente di Buenos Aires).
Negli ultimi anni,
però, l’invisibilità di cui parlava Vásconez si è andata attenuando grazie al successo
internazionale di nuove voci soprattutto femminili, come Gabriela Alemán, María
Fernanda Ampuero e la giovane Monica Ojeda, che con Mandíbula figura,
secondo i critici spagnoli, tra i migliori romanzieri del 2018. E in attesa
che i loro libri, già approdati negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, arrivino
anche da noi, è ora possibile far conoscenza con i due esponenti principali di una
corrente letteraria che negli anni ’30 ha rinnovato la cultura ecuadoriana: Jorge
Icaza, autore di Huasipungo (Elliot, pag. 197, e. 17,50), e José de la Cuadra,
con il suo I Sangurima (Arcoiris, pag.
131, e. 12), rispettivamente tradotti da Lucia Soro e Raul Schenardi, davvero brillantissimi,
cui spetta il merito di aver restituito le caratteristiche e il sapore di testi
in cui convergono molteplici forme dello spagnolo d’oltremare e brandelli di lingue
indigene.
Pubblicati nel
1934, entrambi i romanzi aderiscono consapevolmente al “realismo sociale”, così
definito da de La Cuadra: “La missione della letteratura nel nostro paese consiste
nel rendere evidente il marciume del regime sociale, denunciandolo davanti a noi
stessi e al mondo. Con questo, la nostra letteratura collabora con efficacia all’opera
di abolizione del suddetto regime e lotta per la rivoluzione sociale…”. Una scelta
“di per sé belligerante”, che nasceva da un momento storico connotato dal convulso
succedersi di presidenti, colpi di stato e fulminee guerre civili, nonché dalla
fondazione dei partiti comunista e socialista – molti scrittori, come de la Cuadra,
erano anche militanti, e risulta impossibile scindere il realismo sociale da una
visione marxista –, da proteste operaie e sollevazioni contadine; in un simile contesto,
rappresentare la realtà non poteva essere che un gesto politico ed esprimeva inoltre
la volontà di costruire una cultura nazionale e popolare, con il contributo di quella
che Mariategui chiamò “una letteratura di meticci”, ovvero indigenista (perché quella
indigena “se deve arrivare, arriverà a suo tempo. Quando gli stessi indios saranno
in grado di produrla”).
Indigenista, con
tutti i problemi di rappresentazione dell’altro che questo comporta, è senza dubbio
l’opera di Icaza – nato a Quito nel 1906, ex studente di medicina e poi attore,
commediografo, libraio – che a partire dal 1933 prese a comporre un ampio affresco
narrativo della società ecuadoriana, denunciando le miserabili condizioni di vita
degli indios, fossero huasipungueros (cioè assegnatari, e mai proprietari,
di un fazzoletto di terra, unico compenso per il lavoro nel latifondo), oppure contadini
inurbati, comunque soggetti a un trattamento inumano da parte dei creoli e dei cholos,
i meticci che si erano fatti strumento della classe dominante. Huasipungo, il romanzo più famoso della letteratura
ecuadoriana, è modellato proprio sul tipico schema indigenista, che oppone gli indios
al triangolo formato dal proprietario terriero e dai suoi complici, il prete avido
e corrotto e il militare repressore. Icaza vi introduce tuttavia numerosi elementi
nuovi: la storia del latifondista che, alleato con il capitale nordamericano, obbliga
i suoi “schiavi” a fatiche disumane per realizzare le infrastrutture necessarie
allo sfruttamento del territorio, e infine li espelle dagli huasipungos e
li fa massacrare dall’esercito, non è solo la rappresentazione di abusi secolari,
ma esprime le tensioni scatenate in un sistema semifeudale dalla tardiva transizione
al capitalismo.
E nuovi sono lo
stile, secco, quasi brutale (di Icaza, come di Arlt, si diceva che “non sapeva scrivere”),
l’uso di un linguaggio in cui il quechua si mescola a uno spagnolo storpiato, e
infine il cupo ritratto, vero esempio di “estetica dell’orrore”, di una comunità
abbrutita dalla miseria e dall’ingiustizia. Oggi come allora, la durezza del romanzo
e la sua assenza di consolazione (ma non di speranza, concentrata nel grido finale:
“Lo huasipungo è nostro!”, che segna l’uscita dall’afasia e annuncia la voce ritrovata,
ma tuttora inascoltata, dei pueblos originarios), appaiono più che mai necessarie,
là dove, come sottolinea Danilo Manera nella sua puntuale postfazione, l’autore
ci mostra “cosa nasconde la falsa retorica del progresso e quanta sciagura attende
gli ultimi”.
I Sangurima di Jorge de la Cuadra – nato nel 1903 a Guayaquil, avvocato, insegnante,
diplomatico – si inscrive anch’esso nel realismo sociale e ritrae da vicino la costa
montuvia (di cui l’autore era originario), ma percorrendo vie diverse da
quelle scelte da Icaza. Scrittore colto, raffinato, con un vivo senso del paradosso
e dell’umorismo, de la Cuadra narra la feroce saga dei Sangurima e del loro patriarca
Nicasio, cacique meticcio che con l’omicidio, la corruzione e la rapina ha
fondato una dinastia e creato un latifondo, ma il cui potere, considerato frutto
di un patto col diavolo, è destinato a dissolversi nella follia e nel sangue.
Come in Huasipungo, siamo dunque di fronte a un momento
di passaggio, narrato però in altri termini, e non solo perché al desolato scenario
di Icaza corrisponde, qui, l’esuberanza di un mondo simboleggiato dal matapalo,
albero vigoroso e magnifico che “penetra in profondità nel terreno con le sue radici
simili ad artigli” e ha molteplici tronchi dalle forme fantastiche. Al matapalo
assomiglia anche il romanzo, breve e densissimo, in cui si percepisce l’eco degli
inizi modernisti e sperimentali dell’autore, che con discreta audacia formale accosta
i capitoli in modo da ricordare il biforcarsi
di rami e rametti, ma assume anche il ritmo spezzato dell’oralità e del linguaggio
popolare, cui si mostra attento sia nei dialoghi che nel continuo accennare a leggende,
credenze magiche, tradizioni e dicerie, insomma alle fantasias montuvias,
sempre intrecciate ai fatti.
Si è insistito
molto, forse troppo, su una parentela ideale tra I Sangurima e Cent’anni di solitudine,
per via di temi e personaggi come il patriarca, la fondazione mitica di un villaggio,
l’ascesa e la rovina di una famiglia, i legami incestuosi, i tocchi soprannaturali,
l’isolamento di un territorio che vive secondo le proprie leggi… Ma considerare
de la Cuadra un precursore dell’abusatissimo “realismo magico” rischia di sminuire
l’originalità di un autore che coniuga precisi riferimenti storici e politici all’immaginario
autoctono e a materiali linguistici di cui non si era mai tenuto conto, e crea così
una zona aperta, di contatto tra culture, dove i mostruosi e affascinanti Sangurima,
più veri del vero, diventano figure mitiche e allegoriche, e tuttavia saldamente
inserite in un contesto ben definito: quello di un mondo arcaico e crudele, destinato
a soccombere davanti all’irruzione di una modernità altrettanto violenta e corrotta.
Questo articolo
è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2019