Manuel Vilas
Di padre in figlio, e viceversa
Fu nel 1977 che
Serge Doubrovsky coniò il termine autofiction, in italiano autofinzione:
“Autobiografia? No. (…). Se si vuole, autofiction, per aver affidato il linguaggio
di un’avventura all’avventura del linguaggio”: così si legge nella quarta di copertina
di Fils, il terzo dei romanzi in cui lo scrittore francese sciorinò ogni
dettaglio della propria vita (uno di essi, Le livre brisé, era basato sulla
relazione con la moglie Ilse, suicida dopo aver letto i primi capitoli). Il neologismo,
che sembrava alludere a un gioco di specchi (uno scrittore che scrive la storia
di uno scrittore che scrive la propria storia), versione sperimentale e postmoderna
dell’autobiografia, ha avuto immediata fortuna e generato molteplici riflessioni
sull’ambiguità che lo contraddistingue e che consente a critica e accademia di usarlo
per indicare materiali narrativi diversi, non sempre recenti (l’autofinzione è,
in effetti, meno nuova o innovativa di quanto pretende), comunque ancorati all’Io,
velato o esibito, dello scrittore.
Qualsiasi significato
si intenda attribuirle, non c’è dubbio che negli ultimi anni l’autofinzione sia
diventata una moda, precipitata anzitutto in quel diluvio egoico, di implacabile
minuzia notarile, che è La mia lotta del
norvegese Karl Ove Knausgård, ma anche in opere singolari e riuscite, e infine in
un certo numero di “prodotti industriali”, costruiti per il voyeurismo collettivo.
Ora, pur avendo scritto un testo in cui ogni pagina, ogni riga, mettono a nudo la
sua vita, Manuel Vilas, autore di In tutto
c’è stata bellezza (titolo originale Ordesa, da mercoledì in libreria
per Guanda, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 416, e. 19) rifiuta categoricamente
la sbrigativa etichetta autofinzionale che viene quasi spontaneo applicargli: preferisce
parlare di una confessione, scritta seguendo i movimenti irregolari della memoria
e rispettandone i vuoti.
Nato nel ’62, Vilas
è uno dei più notevoli poeti spagnoli della sua generazione (la sua Poesía completa
è raccolta in un volume di oltre 600 pagine edito da Visor), ma anche un solido
prosatore, che in una trentina d’anni ha affrontato mirabilmente il romanzo, il
racconto, la cronaca di viaggio, la saggistica, costruendo un’opera multiforme,
eterodossa, connotata da ironia, propensione al grottesco, passioni da rockero,
attenzione per la cultura pop. E, sempre, da posizioni politiche che rivendicano
la coscienza di classe di una Spagna plebea, dimenticata, povera. Seguìto da una
ristretta cerchia di lettori audaci quanto lui, “scrittore per scrittori” imprevedibile
e misterioso, Vilas conosce oggi un successo inatteso; il suo Ordesa, pubblicato
in Spagna un anno fa presso Alfaguara, è diventato un best seller con straordinaria
rapidità, raggiungendo, con l’appoggio fin troppo entusiasta della critica, un vasto
pubblico che quasi non lo conosceva, a conferma di quanto lo stesso Vilas ha sempre
sostenuto, e cioè che il mercato non è necessariamente impermeabile a scritture
“divergenti” e provocatorie.
Indagare sulla
ragioni della fortuna di In tutto c’è stata
bellezza ha poca importanza. Importa, invece, la singolarità di un libro complesso
e inclassificabile, che, concepito come “lettera d’amore” ai propri genitori scomparsi,
potrebbe correre il rischio di cadere nel luogo comune, e, al contrario, lo polverizza
grazie alla forza del linguaggio, alla qualità della scrittura, alla suggestiva
frammentarietà, in apparenza caotica ma ben regolata, imposta a materiali che, invece
di trascinare il testo in una palude lamentosa e sentimentale, si trasformano in
elegia, in rimpianto, in protesta e in riscatto, restando saldamente piantati nel
territorio della letteratura.
Scritto dopo la
morte dei genitori, un divorzio traumatico, la perigliosa traversata di un alcolismo
impenetrabile e l’abbandono della ventennale professione di insegnante, il libro
è un’autobiografia “laterale”, un tentativo di ricostruirsi e trovare conforto attraverso
una storia di famiglia che è anche quella, sociale e politica, della Spagna fra
gli anni ’60 e ’70; alle figure sbiadite e quasi ignote di nonne, bisnonni mai conosciuti,
zii folli, si giustappongono quelle di un padre e di una madre descritti con lo
stupore di chi li scopre indispensabili solo dopo averli perduti, e cerca, da un’estrema
lontananza, di conoscerli e comprenderli. Il passato diventa oggetto di frustrazione
davanti a segreti inconoscibili, di infinita e ansiosa curiosità, e anche di gioie,
quasi lampi di luce: camminare per le strade di Barbastro, il paese natale, per
mano al padre, “dandy proletario”, povero senza sembrarlo; l’auto paterna che si
ferma in vista di Ordesa, il montuoso e scabro parco nazionale, dove Vilas bambino
si sente avvolgere dal giallo intenso del paesaggio (un colore che per lui, un giorno,
diventerà quello della sofferenza).
L’infanzia, la
fantasmatica famiglia perduta, la Spagna di “classe medio-bassa” affacciata sull’illusione
di un possibile benessere, gli odori, i suoni, le cose di allora (mobili, auto,
abiti, canzoni, oggetti minimi, indizi e detriti di vite trascorse) vengono recuperati,
come in una pesca miracolosa, per mescolarsi al presente, alla solitudine dell’unico
appartamento abitato in un falansterio deserto, alle sbronze nei bar, a una Saragozza
estiva e periferica, alla presenza dei figli che, come accadeva un tempo tra Vilas
e i genitori, stentano a parlare con lui, ai discount dove i poveri fanno la spesa
e si risparmia sugli spiccioli.
Tutto ci viene
consegnato tramite un continuo alternarsi di tempi e luoghi, in una sorta di orchestrato
disordine spaziale e temporale che occupa centocinquantasette brevi capitoli e sfocia
in undici componimenti in versi, nello stile perturbante, denso di immagini e iterazioni,
che Vilas travasa costantemente dalla poesia alla prosa (e viceversa) e che sembra,
purtroppo, così difficile da restituire adeguatamente in italiano. Un corteo di
morti occupa queste pagine, insieme alla consapevolezza che un giorno se ne farà
parte, eppure In tutto c’è stata bellezza
è un libro straordinariamente vitale, perfino consolante, che stabilisce una sorta
di epica della quotidianità, si anima di sprazzi satirici e trasforma i personaggi
in simboli, mentre assegna loro i nomi dei più grandi musicisti classici. Aspirando
a raccontare la sua verità (non tutta, ma quasi, perché, a differenza di Knausgård
e di Doubrovsky, Vilas ritiene che ci siano limiti anche a ciò che si può dire di
se stessi e degli altri, e lo dimostrano certe assenze, certe figure che il racconto
lascia “in bianco”), l’autore ci offre un testo ibrido in cui sembrano confluire
tutti i suoi libri precedenti, pur così diversi l’uno dall’altro: di pagina in pagina,
ritroviamo l’impronta di una voce che, evolvendosi e cercando strade nuove, ha conquistato
una potente riconoscibilità.
Questo articolo
è apparso sul quotidiano Il manifesto nel gennaio del 2019