sabato 2 febbraio 2019

Da leggere: Vera Giaconi

Vera Giaconi


Un reticente minimalismo 

Quella di Vera Giaconi, nata a Montevideo sul finire del 1974, è una storia comune a tanti bambini latinoamericani di quegli anni: la storia di una fuga, di un esilio, di un’infanzia diversa che gli adulti si sforzarono di rendere comunque “normale”. Vera aveva nove mesi, quando insieme alla madre raggiunse in Argentina un padre che, costretto ad espatriare dopo il colpo di stato del ’73, come tanti altri uruguayani aveva preso la via di Buenos Aires, forse rassicurato dall’elezione alla Presidenza del peronista di sinistra Héctor José Campora. Non molto tempo dopo, però, anche in Argentina i militari avrebbero preso il potere, costringendo gli esuli giunti da altri paesi a scegliere se andarsene ancora una volta o restare, pagando un alto prezzo – solo tra gli uruguayani si contano 138 desaparecidos –, oppure rassegnandosi a vivere in semiclandestinità, tra mille silenziose cautele.

È forse nel silenzio di quegli anni, nelle parole a lungo misurate e trattenute, l’origine del reticente minimalismo di Giaconi, che oggi vive e lavora nella città dov’è cresciuta (uruguayana tra gli argentini e argentina tra gli uruguayani), scrivendo pagine che assegnano al non detto un ruolo fondamentale e possiedono l’apparente nitidezza di una foto che bisogna osservare più volte per scoprire, intuire, immaginare cosa si nasconde ai margini, nei chiaroscuri e nelle ombre. Ed è proprio lesinando o negando informazioni, fermandosi sull’orlo di una conclusione, sospendendo il giudizio ed elaborando strategie impercettibilmente allusive, che Giaconi offre al lettore un inconsueto spazio di libertà e di interpretazione.

Mostrare la realtà, piuttosto che spiegarla, sembra infatti l’intenzione dell’autrice, il cui stile personalissimo, già evidente in Carne viva – libro d’esordio pubblicato nel 2011 da Eterna Cadencia –, acquista maturità e sicurezza nei dieci racconti di Persone care (SUR, pp. 56, e. 15, da poco in libreria nella bella traduzione di Giulia Zavagna), accentuando l’asciutto realismo, la sobrietà della frase e l’attenzione accordata a dettagli e circostanze minime. Non a caso Marcelo Cohen (critico acuto e grande scrittore ancora poco noto in Italia) collega i racconti di Giaconi a un imponente filone di scrittrici anglosassoni, da Flannery O’Connor ad Alice Munro, “che ha dato alla letteratura non meno prospettive e al lettore non meno ampiezza (e inquietudini) della grande narrativa sperimentale”.

Ma sembra innegabile anche il legame con la schiera delle sorprendenti cuentistas latinoamericane che oggi proseguono l’opera di scrittrici considerate ormai veri e propri classici: gli intimi inferni e le sommesse atrocità domestiche di Silvina Ocampo, Amparo Davila, Sara Gallardo, Clarice Lispector (della quale troviamo in epigrafe una frase rivelatrice sulla “crudele necessità di amare” e “la malignità del nostro desiderio di essere felici”) non sono poi così lontani da quelli contemporanei di Mariana Enríquez, Andrea Jeftanovic, Samanta Schweblin e altre ancora, inserite in un ventaglio di scritture molto diverse tra loro, ma che hanno in comune l’assenza di consolazione e la capacità di metterci a confronto, in un modo o nell’altro, con quello che preferiremmo non vedere.

Anche Vera Giaconi, come la maggior parte di loro, avvolge la spirale della sua prosa intorno ai rapporti familiari, alle “persone care” (un titolo che, alla luce delle storie narrate, può apparire ironico), a legami ineludibili in cui si insinuano invidia, risentimento, rancore, perfino furia, ma anche condivisione e complicità, come in Al buio, uno dei due racconti – l’altro è Dumas – in cui l’autrice accenna all’infanzia attraversata dalla dittatura, discostandosi dalla neutra atemporalità che le è consueta ed evitando allo stesso tempo la tentazione memorialista: nascosti in fondo all’armadio dove la madre ha preparato per loro un rifugio di emergenza, i fratellini Roxy e Facundo si offrono a vicenda protezione e conforto, immersi nel duplice buio delle inattendibili spiegazioni materne e in quello, più tangibile ma altrettanto misterioso, dell’appartamento dove la baby sitter “gioca” a spegnere tutte le luci.

Al loro abbraccio corrisponde, in Piranha, il dispettoso contrasto tra Romina e Víctor, che ha perso due dita in un corso d’acqua invaso dai terribili pesci e che ingaggia con la sorella piccole e violente battaglie, riflesse come in un gioco di specchi nella lite a porte chiuse dei genitori e nella lotta libera trasmessa in tv. Ed è sempre davanti alla tv, mentre va in onda un assurdo programma in cui si assegna un prezzo agli oggetti portati dal pubblico, che il protagonista del riuscitissimo Stimatore valuta a sua volta il futuro che lo aspetta, calcolando i costi rovinosi dei prossimi vent’anni di vita dell’anziana madre addormentata in poltrona, fastidiosa quanto il costoso orologio che gli ha regalato: “Un oggetto caro ma ordinario, qualcosa che gli appartiene e di cui non riesce a sbarazzarsi, qualcosa che detesta e con cui non sa che fare”.

Tutto, in Persone care, avviene in spazi chiusi e domestici, come in Resti, cronaca dettagliata dell’efficienza e del segreto tripudio con cui due donne, dopo la morte della ricca sorella minore, allestiscono il suo ricevimento funebre, e intanto esplorano cassetti, frugano negli armadi, si provano il sontuoso abito da sposa della defunta. L’esterno viene evocato solo tramite vaghi accenni (il percorso della domestica Rosa, in Beati, tra il lussuoso quartiere residenziale dove lavora e la sua casa – due autobus, un viaggio in treno, quindici isolati a piedi –, oppure il McDonald’s dove un uomo e la figlia adolescente riusciranno forse a riannodare i fili di una comunicazione spezzata dalla morte della madre, in Carne) o più spesso filtra attraverso le avventure fasulle dei reality e l’irresistibile trash vomitato dal video.

Sono storie scomode e mai ovvie, quelle di Persone care, che con una serie di sottili, quasi inavvertibili spostamenti lasciano affiorare dalla superficie, magari per un attimo, significati e perfino pericoli inattesi, come nel decimo racconto, Rincontro, lontano dal solido realismo degli altri nove e più prossimo al perturbante fantastico “nero” della Enríquez e della Schweblin, ma anche alle insolite atmosfere di Armonia Somers, straordinaria scrittrice uruguayana morta nel 1994. Un possibile annuncio, questa brusca virata finale, delle sorprese che in futuro saprà riservarci Vera Giaconi, con la sua voce misurata e tagliente?

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2019