Vera Giaconi
Un reticente minimalismo
Quella di Vera Giaconi, nata a Montevideo
sul finire del 1974, è una storia comune a tanti bambini latinoamericani di quegli
anni: la storia di una fuga, di un esilio, di un’infanzia diversa che gli adulti
si sforzarono di rendere comunque “normale”. Vera aveva nove mesi, quando insieme
alla madre raggiunse in Argentina un padre che, costretto ad espatriare dopo il
colpo di stato del ’73, come tanti altri uruguayani aveva preso la via di Buenos
Aires, forse rassicurato dall’elezione alla Presidenza del peronista di sinistra
Héctor José Campora. Non molto tempo dopo, però, anche in Argentina i militari avrebbero
preso il potere, costringendo gli esuli giunti da altri paesi a scegliere se andarsene
ancora una volta o restare, pagando un alto prezzo – solo tra gli uruguayani si
contano 138 desaparecidos –, oppure rassegnandosi a vivere in semiclandestinità,
tra mille silenziose cautele.
È forse nel silenzio di quegli anni, nelle
parole a lungo misurate e trattenute, l’origine del reticente minimalismo di Giaconi,
che oggi vive e lavora nella città dov’è cresciuta (uruguayana tra gli argentini
e argentina tra gli uruguayani), scrivendo pagine che assegnano al non detto un
ruolo fondamentale e possiedono l’apparente nitidezza di una foto che bisogna osservare
più volte per scoprire, intuire, immaginare cosa si nasconde ai margini, nei chiaroscuri
e nelle ombre. Ed è proprio lesinando o negando informazioni, fermandosi sull’orlo
di una conclusione, sospendendo il giudizio ed elaborando strategie impercettibilmente
allusive, che Giaconi offre al lettore un inconsueto spazio di libertà e di interpretazione.
Mostrare la realtà, piuttosto che spiegarla,
sembra infatti l’intenzione dell’autrice, il cui stile personalissimo, già evidente
in Carne viva – libro d’esordio pubblicato nel 2011 da Eterna Cadencia –,
acquista maturità e sicurezza nei dieci racconti di Persone care (SUR, pp. 56, e. 15, da poco in libreria nella bella traduzione
di Giulia Zavagna), accentuando l’asciutto realismo, la sobrietà della frase e l’attenzione
accordata a dettagli e circostanze minime. Non a caso Marcelo Cohen (critico acuto
e grande scrittore ancora poco noto in Italia) collega i racconti di Giaconi a un
imponente filone di scrittrici anglosassoni, da Flannery O’Connor ad Alice Munro,
“che ha dato alla letteratura non meno prospettive e al lettore non meno ampiezza
(e inquietudini) della grande narrativa sperimentale”.
Ma sembra innegabile anche il legame con
la schiera delle sorprendenti cuentistas latinoamericane che oggi proseguono
l’opera di scrittrici considerate ormai veri e propri classici: gli intimi inferni
e le sommesse atrocità domestiche di Silvina Ocampo, Amparo Davila, Sara Gallardo,
Clarice Lispector (della quale troviamo in epigrafe una frase rivelatrice sulla
“crudele necessità di amare” e “la malignità del nostro desiderio di essere felici”)
non sono poi così lontani da quelli contemporanei di Mariana Enríquez, Andrea Jeftanovic,
Samanta Schweblin e altre ancora, inserite in un ventaglio di scritture molto diverse
tra loro, ma che hanno in comune l’assenza di consolazione e la capacità di metterci
a confronto, in un modo o nell’altro, con quello che preferiremmo non vedere.
Anche Vera Giaconi, come la maggior parte
di loro, avvolge la spirale della sua prosa intorno ai rapporti familiari, alle
“persone care” (un titolo che, alla luce delle storie narrate, può apparire ironico),
a legami ineludibili in cui si insinuano invidia, risentimento, rancore, perfino
furia, ma anche condivisione e complicità, come in Al buio, uno dei due racconti – l’altro è Dumas – in cui l’autrice accenna all’infanzia attraversata dalla dittatura,
discostandosi dalla neutra atemporalità che le è consueta ed evitando allo stesso
tempo la tentazione memorialista: nascosti in fondo all’armadio dove la madre ha
preparato per loro un rifugio di emergenza, i fratellini Roxy e Facundo si offrono
a vicenda protezione e conforto, immersi nel duplice buio delle inattendibili spiegazioni
materne e in quello, più tangibile ma altrettanto misterioso, dell’appartamento
dove la baby sitter “gioca” a spegnere tutte le luci.
Al loro abbraccio corrisponde, in Piranha, il dispettoso contrasto tra Romina
e Víctor, che ha perso due dita in un corso d’acqua invaso dai terribili pesci e
che ingaggia con la sorella piccole e violente battaglie, riflesse come in un gioco
di specchi nella lite a porte chiuse dei genitori e nella lotta libera trasmessa
in tv. Ed è sempre davanti alla tv, mentre va in onda un assurdo programma in cui
si assegna un prezzo agli oggetti portati dal pubblico, che il protagonista del
riuscitissimo Stimatore valuta a sua volta
il futuro che lo aspetta, calcolando i costi rovinosi dei prossimi vent’anni di
vita dell’anziana madre addormentata in poltrona, fastidiosa quanto il costoso orologio
che gli ha regalato: “Un oggetto caro ma ordinario, qualcosa che gli appartiene
e di cui non riesce a sbarazzarsi, qualcosa che detesta e con cui non sa che fare”.
Tutto, in Persone care, avviene in spazi chiusi e domestici, come in Resti, cronaca dettagliata dell’efficienza
e del segreto tripudio con cui due donne, dopo la morte della ricca sorella minore,
allestiscono il suo ricevimento funebre, e intanto esplorano cassetti, frugano negli
armadi, si provano il sontuoso abito da sposa della defunta. L’esterno viene evocato
solo tramite vaghi accenni (il percorso della domestica Rosa, in Beati, tra il lussuoso quartiere residenziale
dove lavora e la sua casa – due autobus, un viaggio in treno, quindici isolati a
piedi –, oppure il McDonald’s dove un uomo e la figlia adolescente riusciranno forse
a riannodare i fili di una comunicazione spezzata dalla morte della madre, in Carne) o più spesso filtra attraverso le
avventure fasulle dei reality e l’irresistibile trash vomitato dal video.
Sono storie scomode e mai ovvie, quelle di
Persone care, che con una serie di sottili,
quasi inavvertibili spostamenti lasciano affiorare dalla superficie, magari per
un attimo, significati e perfino pericoli inattesi, come nel decimo racconto, Rincontro, lontano dal solido realismo degli
altri nove e più prossimo al perturbante fantastico “nero” della Enríquez e della
Schweblin, ma anche alle insolite atmosfere di Armonia Somers, straordinaria scrittrice
uruguayana morta nel 1994. Un possibile annuncio, questa brusca virata finale, delle
sorprese che in futuro saprà riservarci Vera Giaconi, con la sua voce misurata e
tagliente?
Questo articolo è apparso sul quotidiano
Il manifesto nel febbraio del 2019