Adriàn Bravi
Lingue e popoli di una terra remota
Sono più o meno vent’anni
che Adriàn Bravi, nato vicino a Buenos Aires nel 1963 e dagli anni ’80 residente
in Italia (dove fa il bibliotecario all’Università di Macerata), scrive in italiano,
lingua in un certo senso ereditata, ma che, in quanto argentino di seconda generazione,
nipote di emigranti marchigiani, aveva ormai perduto. Già nel 2004, tuttavia, è
apparso il suo primo romanzo pensato e scritto in italiano, seguito da altri cinque,
tutti pubblicati da Nottetempo: storie bizzarre, svagate e insieme profonde, sottilmente
umoristiche, che a volte nascono dal ricordo e dall’immagine di una remota Argentina
e testimoniano la fecondità di un complesso incrocio linguistico e culturale. Non
c’è da stupirsi, dunque, che la lingua, anzi le lingue (usate, dimenticate, evocate,
“luogo” di sentimenti ed emozioni) siano uno dei temi principali dell’ultimo romanzo
di Bravi, L’idioma di Casilda Moreira
(Exorma, pag. 187, e. 15,50), in cui un giovane studioso lascia le colline delle
Marche per raggiungere la Patagonia, dove, gli ha raccontato un suo eccentrico professore,
vivono due anziani tehuelches, superstiti di un popolo decimato e disperso,
e ultimi a parlare una lingua in procinto di scomparire. Da anni, però, i vecchi
non si rivolgono la parola: le frasi usate nei giorni di un amore poi tradito, tanto
e tanto tempo prima, per loro sono inutilizzabili, morte insieme a quel sentimento.
Ma Annibale è così ostinato che riuscirà a provocare e registrare un loro dialogo,
forse l’ultimo…
La storia, però,
non è tutta qui: tra i molti fili che attraversano un vero e proprio viaggio iniziatico,
ci sono un nuovo amore, un trionfale incantesimo, la memoria delle popolazioni indigene,
e soprattutto le sconfinate solitudini di una terra leggendaria.
D. In La gelosia delle lingue un suo
libro del 2017 a metà tra saggio e racconto autobiografico, si affronta il tema
del vivere, e soprattutto dello scrivere, tra (o in) lingue diverse: L’idioma di Casilda Moreira, continua e approfondisce
questa sua riflessione?
R. Le lingue determinano il nostro modo di essere e di stare al mondo. Non parliamo
questa o quella lingua ma siamo in questa o quella lingua e questo crea una tensione
sentimentale dentro di noi. Guardiamo il mondo e lo interpretiamo attraverso la
lingua. D’altra parte, mi piace pensare, le lingue non hanno frontiere e non appartengono
a nessuno, solo a chi le parla e le vive dall’interno. A volte ho l’impressione
che certi ricordi o le nostre storie d’amore non possano vivere con la stessa intensità
in due lingue diverse. E questa, in parte, è l’idea che viene fuori da L’idioma di Casilda Moreira: innamorarsi
in una lingua e non poterla più usare con la persona amata, una volta che cessa
l’amore.
D. Nel romanzo, i due anziani Casilda e Bartolo sono gli ultimi a parlare una
lingua che sparirà con loro. Nella realtà i günün a künä (o teuhelches)
stanno riavvicinandosi alla lingua perduta, tanto che Daniel Huircapán ha pubblicato
un libro, Hable günün a yájüch, per favorirne il (ri)apprendimento. Questo
tentativo ha un senso, secondo lei, oppure hanno ragione Casilda e Bartolo, quasi
indifferenti alla scomparsa della propria lingua?
R. Alla fine degli anni Cinquanta l’antropologo e storico argentino Rodolfo
Casamiquela, racconta di aver intervistato l’ultimo parlante di questa lingua, il
cacicco José María Kual, morto nel 1960 all’età di 90 anni. Con il suo aiuto, Casamiquela
era riuscito a stabilire le basi grammaticali del günün a yajüch (il nome
che i günün a künä davano alla propria lingua). Negli ultimi anni è iniziato
un processo di ricostruzione linguistica. Mi fa piacere che citi Daniel Huircapan,
un discendente dei tehuelches, impegnato sul fronte della ricostruzione culturale
del suo popolo, perché mi sono confrontato proprio con lui per quanto riguarda la
parte linguistica del libro. Nella finzione, mi piace l’idea che Casilda e Bartolo
rimangano un po’ indifferenti alla scomparsa della propria lingua (in verità, più
che d’indifferenza di tratta d’inconsapevolezza). Nella realtà, invece, sono molto
favorevole al recupero del loro mondo, artistico, mitologico, astronomico, ecc.
Sono convinto che il vento, la pianura, i fiumi e tutto il resto non possano vivere
allo stesso modo senza la lingua parlata per anni dai primi uomini che hanno calpestato
quelle terre.
D. In Argentina la cancellazione delle lingue e delle culture indigene è stata,
per varie ragioni, molto più radicale che in altri paesi dell’America latina. Il
romanzo mi è sembrato anche una sorta di omaggio a un’alterità da lungo tempo sopraffatta,
che se ne va portando con sé i propri segreti, come fanno Casilda e Bartolo.
R. L’Argentina è sempre stato un paese con lo sguardo rivolto all’Europa. Quando,
però, si è accorta delle ricchezze che possedeva al suo interno, è iniziata, nella
seconda metà dell’ottocento, la famigerata Conquista del desierto, che ha
comportato una campagna di appropriazione indebita delle terre (tutt’ora in corso)
e il massacro di intere popolazioni (i primi desaparecidos della storia di
questo paese) che abitavano da sempre quei luoghi, e di conseguenza la cancellazione
di lingue, di sguardi sul mondo, ecc. Quando a scuola si studiavano gli indios non
si riusciva mai a fare una seria distinzione tra le varie etnie, se ne parlava in
generale, anche questa negazione faceva parte di un indottrinamento. Nel romanzo
ho voluto parlare di un popolo quasi scomparso e, nel mio piccolo, provare a restituirgli
la sua dignità. Sì, in parte il libro l’ho pensato anche come un omaggio a quella
gente che non riusciva e non voleva identificarsi con lo stato, liberi dalla soggezione
del mercato e dell’autorità. È stato un modo di fare i conti con la storia e con
quel paesaggio che fa parte di un immaginario comune.
D. Sin dal XVI secolo, si sono accumulati gli scritti sulla Patagonia di esploratori
e studiosi, ma anche quelli di cronisti e scrittori, che hanno trasformato questa
zona del mondo in un “luogo dell’immaginazione”. Che Patagonia è la sua? C’è qualche
riflesso di narrazioni altrui, o si tratta di un territorio narrativo del tutto
personale?
R. Ho sempre pensato alla Patagonia come a un grande laboratorio onirico. “America
è stata un’invenzione dei poeti” segnalava Alfonso Reyes in Ultima Tule, per sintetizzare quella inclinazione
verso il fantastico che hanno manifestato i primi cronisti. La stessa cosa potrebbe
dirsi dell’immensità della Patagonia. Credo che possiamo descriverla meglio per
via negationis, come una sorta di teologia negativa, e trasformare la sua
geografia in un’unica cosa con l’immaginazione. “C’è un’ora della sera in cui la
pianura sta per dire qualcosa; non la dice mai, o forse la dice infinitamente e
non lo capiamo, o lo capiamo ma è intraducibile come una musica” dice Borges. Insomma,
la mia Patagonia, questa topografia immaginifica, è quella dell’infanzia di William
H. Hudson, quella di Juan José Saer ed Ezequiel Martínez Estrada, ma anche la pianura
che César Aira scopre attraverso Rugendas, il pittore fulminato che va tra gli indios
per dipingere una battaglia.
D. Annibale, il protagonista, è deciso a far dialogare Casilda e Bartolo in
nome della scienza, e pur di riuscirci ricorre all’inganno. Ma l’ultima pagina ci
offre un’altra possibilità di lettura che cambia (o svela) il senso del viaggio
del giovane studioso di etnolinguistica.
R. Nel libro si incontrano due concezioni diverse del mondo: da un lato la visione
magica di Bartolo e dall’altro quella scientifica di Annibale. Bartolo osserva la
pianura in groppa al suo cavallo, sempre chiuso nel recinto, e vede o immagina lo
spazio mitico degli antenati, dove l’uomo e la natura formavano un corpo unico,
quasi inscindibile. Pensa ancora al posto dove crescono i nomi e spera di essere
sepolto insieme al cavallo per poterlo cavalcare dopo la morte e raggiungere il
desiderato sud. Annibale, invece, da europeo qual è, ha un approccio opposto, distaccato,
mi verrebbe da dire quasi “museale”, di chi vuole appropriarsi di una lingua per
conservarla. Insomma, uno è legato all’oralità o alla voce che sfiora la pianura,
l’altro alla scrittura e al suo alfabeto fonetico. E alla fine si scopre che anche
il günün a yajüch, come tutte le lingue, serba dentro di sé una sua magia,
che si dispiega in un incantesimo. Il libro, in verità, è anche e soprattutto la
storia di un viaggio che l’eroe intraprende non verso un luogo, anche se il luogo
c’è ed è lontanissimo, ma verso una lingua che vorrebbe salvare. E, come in tutti
i viaggi, durante il percorso accadono (e cambiano) tante cose.
Questo articolo
è apparso sul quotidiano Il manifesto nel febbraio del 2019