Clara Usón
Riflessione filosofica sul suicidio
Chi ha letto Valori (Sellerio 2016), settimo romanzo di
Clara Usón, si sarà certamente reso conto dell’abile gioco portato avanti dall’autrice:
raccontare, mescolando fatti reali e immaginazione, storie distanti nel tempo e
nello spazio, che sembrano non aver nulla a che fare l’una con l’altra e i cui fili,
invece, si intersecano e si intrecciano fino a giustificare il “disordine” apparente
della narrazione. Sin dal suo debutto letterario con Noches de San Juan,
nel 1998, Usón (nata a Barcellona nel 1961 e nota soprattutto grazie a un altro
romanzo di grande successo, La figlia,
sempre pubblicato da Sellerio) è andata definendo e raffinando questo procedimento
di complessa “tessitura”, che sfocia ora nel disegno quasi labirintico di L’assassino timido (Sellerio, pp. 186, e.
15, nella bella e sensibile traduzione di Silvia Sichel), la sua opera più recente
e forse la più matura e personale.
Il punto di partenza
è la breve vita di Sandra Mozarovski – attrice del cosiddetto cine del destape,
che tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, venuta meno la censura franchista,
sfornò innumerevoli pellicole ai confini del porno – morta diciottenne nel 1977
in un incidente mai chiarito (la vicenda, tra l’altro, nel 2013 ha attirato l’attenzione
di un’altra scrittrice spagnola, Marta Sanz, che ne parla nel suo Daniela Astor
y la caja negra), fonte di infinite voci a causa di una sua presunta relazione
con l’allora re di Spagna, Juan Carlos, dongiovanni compulsivo e ben protetto dalla
discrezione dei media: voci di cui Usón dà conto, ma solo per constatare una volta
di più la fragilità della versione ufficiale (la ragazza sarebbe caduta alle tre
di notte dal balcone di casa, sporgendosi troppo mentre innaffiava le piante), anche
se, tra ipotesi che includono una rocambolesca “esecuzione” da parte dei servizi
segreti, si fa largo quella che la splendida Sandra, forse incinta, si sia suicidata.
Ed è proprio la figura
del suicida – parafrasando Pavese, Usón lo definisce “un assassino timido” – a giustificare
il titolo e a sovrapporsi dopo poche pagine a quella di Sandra, prima attraverso
la storia vera di due fidanzati che, nella Basilicata del 1975, si gettarono sotto
un treno, e poi grazie a una girandola di citazioni letterarie e filosofiche, dalla
quale emergono soprattutto i nomi di Camus, Pavese e Wittgenstein; sarà infine quest’ultimo
a occupare con la sua superbia, le frasi lapidarie, l’attrazione per il gesto suicida
mai consumato, la parte centrale del romanzo, condividendola però con la storia
familiare di Clara, che intavola con lui una sorta di ironico contraddittorio e
stabilisce continui e volutamente improbabili punti di contatto tra gli Usón e i
Wittgenstein.
L’autrice ci regala
così una trama continuamente spezzata, che rivendica sia l’accostamento di materiali
alti e bassi, sia la discontinuità narrativa teorizzata da Cervantes: il lettore
viene sbalzato dalla narrativa alla saggistica, dai conflitti di famiglia al ritratto
di una Spagna della Transizione, che a suo tempo mitizzata, viene ora sottoposta
a una revisione severa. Ma tutto torna, tutto si ricompone nell’ultimo capitolo,
l’unico con un titolo (Vizio e perdizione),
in cui l’autrice, immaginando un proprio biopic interpretato da Mozarovski, ci svela
che L’assassino timido è in realtà un’autobiografia
per interposta persona, e, pur sfuggendo alle consuete convenzioni della “scrittura
dell’io”, depone le sue molteplici maschere per venire allo scoperto e ammettere
ogni cosa, con asciutta e irresistibile ironia: sette tentativi di suicidio sempre
contraddetti da una richiesta di soccorso, lunghi anni di dipendenza dai farmaci,
dalle droghe del fine settimana che interrompevano la routine professionale della
giovane avvocatessa Usón, dalle pastiglie mescolate all’ alcol e da qualsiasi cosa
si potesse porre tra sé e l’insostenibilità della vita, fino all’internamento in
un centro di disintossicazione, alle crisi psicotiche, alla scoperta della scrittura
come salvezza e liberazione.
Sarà l’ostinazione
della madre a trattenere Clara, a sventarne la vocazione suicida, a riportarla tra
i vivi: una fortuna che non è toccata a Sandra Mozarovski, vittima sacrificale nella
vita come nei film porno-horror a basso costo in cui recitava invariabilmente la
parte di innocente violata o di prostituta, mentre dal suo camicione bianco – quasi
una divisa – affioravano i seni nudi, ad annunciare la pretesa di una nuova obbedienza
da parte del corpo femminile, diversa da quella imposta da Franco, ma soggetta a
norme altrettanto rigide.
Proprio alla luce
di questa incrollabile e inattesa tenacia materna, e dell’omaggio che Clara Usón
le rende, L’assassino timido va letto
non solo come un esercizio letterario formalmente audace, come una riflessione filosofica
sul suicidio, come il ritratto di una generazione in preda a un’ubriacatura esaltante
quanto ingenua – quella dei giovani spagnoli usciti dalla gabbia del franchismo,
e ancora ignari della futura trappola neoliberista –, come un viaggio iniziatico
concluso dal classico “trionfo dell’anima sul male”, ma anche come la storia della
ritrovata solidarietà tra una donna che, nella Spagna del Generalissimo, ha dovuto
vivere una vita decisa da altri (perfetto esempio di femminilità “franchista”: sposa
fedele e feconda, vestale della famiglia, priva perfino del diritto di aprire un
conto in banca o di viaggiare senza il permesso del marito o del padre), cercando
sollievo nell’alcol e in furie occasionali, e una figlia, Clara, rivoltosa, insonne,
sempre in fuga, travolta da pulsioni autodistruttive. Due generazioni di donne che
si sono ricongiunte e comprese, e che si potrebbero prendere a simbolo dell’immensa
forza dimostrata in questi anni dalle donne spagnole, che daranno filo da torcere,
e molto, a chiunque voglia riportarle indietro.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel marzo del 2019