Paulina Flores
La vergogna, un filo tenace e sottile
Una comuna,
cioè un enorme sobborgo nato dalle occupazioni dei terreni nella zona nord di Santiago,
durante la migrazione interna che nel secolo scorso portò nella capitale più di
un milione di persone: questo è Conchalí, abitato soprattutto da famiglie operaie
e piccolo borghesi in perpetua lotta con la disoccupazione e la crisi economica.
Qui, nel 1988, è nata Paulina Flores, nome nuovo della letteratura cilena, che con
il suo primo libro (il secondo, un romanzo, arriverà quest’anno) ha vinto alcuni
premi importanti, è stata tradotta in diverse lingue e si è attirata le lodi unanimi
della critica. Un’autrice cresciuta in una casa modesta dove i libri scarseggiavano,
ma folgorata a vent’anni da una vocazione improvvisa: scrivere, e prima ancora leggere,
leggere moltissimo, mentre studiava all’università, vinceva borse di studio, lavorava
come cameriera o bibliotecaria e frequentava il laboratorio di scrittura di Alejandro
Zambra, autore celebre che tra i primi ne ha sostenuto il talento.
Intitolato Che vergogna e pubblicato nel 2015 da una
casa editrice indipendente e raffinata come la Hueders – e poi rilanciato in tutti
i paesi di lingua spagnola da Seix Barral – il libro appare adesso in italiano presso
Marsilio (pag. 234, e. 16) nella traduzione di Giulia Zavagna, capace di rendere
nel modo migliore i racconti della ragazza di Conchalì, che in nove storie quasi
sempre magistrali racconta paesaggi urbani abitati da personaggi spesso giovanissimi,
colti nell’istante in cui un avvenimento minimo o una scena sommessa ma cruciale,
segneranno un momento di svolta, di cambiamento, di accettazione del proprio destino.
Storie di perdenti che però non si sentono tali, anche quando vengono messi di fronte
ai limiti e agli spigoli di una realtà dalla quale sembrano non aspettarsi molto,
quella di un paese ritratto in due momenti diversi: la difficile e non del tutto
risolta transizione alla democrazia degli anni ’90, e un presente attraversato dal
chiacchiericcio continuo dei social media.
Lontana da ogni stereotipo
generazionale e dal costante interrogarsi sulle onnipresenti tracce della dittatura
(materia inevitabile di tanta scrittura cilena contemporanea), nonché dall’eccesso
di afasia del minimalismo alla moda, Paulina Flores si prende tutto lo spazio necessario
per dispiegare una narrazione realistica e minuziosa, ricca di dettagli e di immagini,
descrivendoci quartieri periferici, desolate cittadine portuali, interni borghesi
o palazzi-alveare in cui si consumano vite familiari spezzate, rapidi incontri sessuali,
infanzie e adolescenze le cui illusioni sono destinate a infrangersi nell’istante
in cui si scopre che “la vita è così”, senza però rinunciare del tutto alla speranza,
anche quando pare che non ne esista nessuna (“… è forse lei l’unica che aspetta
qualcuno?”, si chiede, con l’orecchio incollato alla porta, la protagonista di Fortunata me, lungo racconto che intreccia
con suggestiva abilità un’infanzia segnata dalla perdita e una giovinezza incapace
di stabilire rapporti col mondo, se non attraverso uno sguardo clandestino sull’altrui
intimità).
Adolescenti proletari
che trascorrono l’estate progettando un furto di strumenti musicali, mentre il padre
di uno di loro, ex militare, approda alla disfatta definitiva; ragazzini che rifiutano
la possibilità di una vita migliore per prendersi cura di una miserevole figura
materna; ragazze che vivono incontri fugaci, sospesi nel nulla, o che non percepiscono
la violenza del compagno, o che coprono i tradimenti e le doppiezze delle amiche
di un tempo; vecchie zie amatissime, le uniche a comprendere che nascondersi sotto
il letto significa raggiungere l’unico posto al mondo veramente sicuro; madri terribili
e padri disoccupati da troppo tempo per mantenere il rispetto di sé… E bambine,
soprattutto magnifiche bambine dallo sguardo fin troppo acuto, innamorate della
figura paterna e decise a salvarla dal fallimento, colpite dal tradimento inaspettato
di un genitore, o vittime, nell’oscurità di una spiaggia estiva, della seduzione
di un pedofilo insinuante e tenace come i molluschi incollati alle rocce che li
circondano.
Questi i personaggi
disegnati con profondità e leggerezza in Che
vergogna, le cui storie ci permettono di intravedere alcuni precisi punti di
riferimento: in primo luogo i testi lunghi ed ellittici di Alice Munro, e poi Flannery
O’Connor, Amy Hempel, Lorrie Moore; l’influenza esercitata su Flores da queste maestre
del racconto è indubbia, ma non le ha impedito di pervenire, da subito, a una scrittura
soltanto sua e già sorprendentemente matura, quella di una giovane autrice latinoamericana
ben consapevole della realtà che la circonda, modellata da un neoliberismo che sottrae
tempo di vita, non garantisce che precarietà, colloca il profitto individuale al
di sopra di ogni esigenza collettiva, e tuttavia è attraversato da correnti profonde,
da discorsi che tentano di minare un panorama egemonico dal quale continuano a emergere
voci diverse e impreviste, destinate a contrastarlo proprio attraverso la sua rappresentazione.
Lontano da un’esplicita intenzione politica (l’attivismo dello scrittore va lasciato
alle interviste – ha precisato Paulina Flores, che alle ultime elezioni dichiara
di aver votato per il partito comunista – “perché la letteratura non può essere
un pamphlet”) e tuttavia intrinsecamente politici per lo sguardo con il quale affrontano
la quotidianità e interrogano il mondo, seminando dubbi e disintegrando certezze,
Che vergogna è un autentico saggio di
bravura e allo stesso tempo un “messaggio in bottiglia” che ci conferma, se mai
ce ne fosse bisogno, la ricchezza di un universo letterario del quale, nonostante
l’accresciuta attenzione della nostra editoria, non sappiamo ancora abbastanza,
invitandoci ad approfondirne la conoscenza.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell'aprile del 2019