Juan Rodolfo Wilcock
Il portacenere più cattivo d’Italia
Chiunque affronti
la figura e l’opera multiforme e ricchissima di Juan Rodolfo Wilcock, nato a Buenos
Aires cento anni fa, esordisce con un riferimento al suo abbandono del paese di
origine, nel 1957, per stabilirsi in un’Italia della quale avrebbe adottato la lingua,
usandola con cristallina eleganza per scrivere romanzi, racconti e poesie, nonché
innumerevoli articoli, elzeviri e recensioni (per lo più ironici e giustamente velenosi)
su quotidiani e riviste come la Voce Repubblicana, Il Mondo, L’Espresso e altri
ancora. Anche se non fu l’unico argentino, in quegli anni, a scegliere di espatriare
e rinunciare alla lingua materna – sia Copi che Hector Bianciotti, emigrati a Parigi,
optarono per il francese – la sua decisione sembra suscitare ancora oggi interrogativi
e curiosità, forse perché contravviene al consueto stereotipo dell’esilio (“quasi
una tradizione” per gli autori argentini, scrive Ricardo Piglia), come a quello
dell’intellettuale latinoamericano del secolo scorso, irresistibilmente attratto
dalla calamita culturale parigina, o dal richiamo della otra orilla spagnola.
Lo scrittore non
mise più piede in Argentina, e quel viaggio senza ritorno possiede, in effetti,
caratteristiche insolite, perché nasce da una precisa opzione estetica e anticipa
l’avvento di una letteratura postnazionale, pronta ad attraversare lingue e tradizioni
e a coltivare uno sguardo “estraneo” capace di conferirle una vertiginosa libertà,
che nel caso di Wilcock fu pagata a caro prezzo: la sua volontaria, sdegnosa ed
eccentrica marginalità fece sì che né la cultura argentina, né quella italiana,
si preoccupassero di rivendicarne fino in fondo la letteratura, accantonando i suoi
libri per lunghi periodi.
Sui motivi di una
decisione così radicale e mai veramente chiarita, sono state fatte molte congetture:
un irriducibile antiperonismo (anche se nel ’57 Perón era stato già defenestrato
dalla Revolución Libertadora), la convinzione che lo spagnolo fosse una lingua insoddisfacente
e poco flessibile, il sentirsi un “argentino per caso”, e, forse, la difficoltà
di vivere la propria omosessualità in un contesto che, narrano Hector Bianciotti
in Ce que la nuit raconte au jour e Oscar Villordo in La brasa en la mano,
imponeva il codice eterosessuale come l’unico possibile.
Esiste però un’altra
ipotesi, suggerita tra gli altri dallo scrittore e critico argentino Luis Chitarroni,
direttore editoriale di La Bestia Equilátera, che nel 2015 ha pubblicato
la raccolta di racconti El caos, chiudendo così un cerchio: Il libro, scritto
in spagnolo prima della partenza, quindi tradotto per Bompiani nel 1960, e poi rivisto
da Wilcock per l’edizione Adelphi del 1974 (intitolata “Parsifal: i racconti del
caos”), è infine riapparso nella lingua originaria grazie alla cura di Ernesto Montequin.
Chitarroni, rievocando
la grande ammirazione dell’autore per Borges (che invece lo detestava, secondo la
testimonianza di Bioy Casares), si chiede se il loro desencuentro non fosse
una delle ragioni per cui Wilcock si lasciò lo spagnolo alle spalle. A dividere
i due non erano solo caratteri opposti, ma anche la spregiudicata esplorazione,
da parte del più giovane, della narrativa legata al successo di mercato, e soprattutto
una diversa lettura delle avanguardie, disprezzate da Borges e molto amate da Wilcock,
che si riconosceva, in particolare, nel meditato e travolgente caos dell’“Ulisse”.
E il giudizio di Borges al riguardo, come il solito Bioy non manca di riferire nel
suo monumentale diario, era alquanto aspro: “Wilcock, nonostante eserciti di continuo
e sottilmente la sua intelligenza, si lascia dominare dallo snobismo a favore dei
moderni: venera Joyce, Eliot, Pound, eccetera”. Inventarsi un nuovo destino, tornando
all’Europa cui sentiva di appartenere, e appropriarsi di una lingua sulla quale
Borges non esercitava giurisdizione alcuna, significava perciò prendere le distanze
dal canone borgesiano e dal suo megafono, la rivista Sur fondata da Victoria Ocampo,
che sotto una maschera cosmopolita nascondeva un volto troppo conservatore per il
giovane Wilcock, cooptato a suo tempo in quanto poeta neoromantico di riconosciuto
valore, dopo l’esordio a vent’anni con il primo di sei volumi di versi.
Più del duo Borges-Bioy
o della temibile Victoria, però, la sua stella polare era stata Silvina, la minore
della Ocampo, scrittrice geniale e misteriosa cui lo univa una profonda affinità.
Per lei, il trasferimento del suo “Johnny” nell’Italia visitata insieme nel 1951,
durante un grand tour europeo, fu un grande dispiacere, mentre per Wilcock si trattò
di una scommessa azzardata, fatta per ridefinirsi esplorando altre strade. Passare
all’italiano, utilizzato con destrezza estrema, significò muoversi in un territorio
culturale senza barriere, dove poteva servirsi di un nitido e sorvegliatissimo linguaggio
letterario per costruire, con la spassionata oggettività di un entomologo, personaggi
e situazioni ai confini del fantastico, nati da una distorsione iperbolica e grottesca
della realtà. Se in Argentina era stato quasi esclusivamente poeta, in Italia, pur
continuando a scrivere versi, diventò un narratore votato all’assurdo, all’umorismo
nero, al grottesco, alla parodia e alla satira (esemplare, in questo senso, il romanzo
Due allegri indiani, collage in cui tutte
le ipocrisie italiche vengono sciorinate con un’ironia inarrivabile), che la sua
posizione di straniero eterodosso gli consentiva di esercitare con irriverenza da
“snob assoluto”, secondo la definizione di Luigi Malerba.
In una nota su Samuel
Beckett, Wilcock osserva che l’umanità è come una mela marcia con una parte sana,
tenuta insieme solo dalla buccia; al minimo tocco, però, quella guasta cede e si
disfa. Ed è questa l’umanità ritratta nelle vite immaginarie di La sinagoga degli iconoclasti (più vicino
a Schwob che a Borges), nella delirante mitologia di Lo stereoscopio dei solitari e nei dettagliati orrori del postumo Il libro dei mostri (pag. 143, e. 16), che
Adelphi finalmente ristampa dopo molti anni e in cui l’autore ha raccolto, con occhio
di collezionista, una serie di personaggi mostruosi, ma, a modo loro, terribilmente
normali. Le figurine (quasi delle miniature) descritte in racconti di due o tre
pagine sembrano uscite da qualche antico resoconto di viaggi in cui compaiono popoli
immaginari e remoti: un critico letterario che è in realtà una massa di vermi semovente;
uno scrittore con la fronte ornata da lunghi tentacoli, impegnati a scrivere ciascuno
un proprio romanzo; una diva in decomposizione, il cui corpo putrefatto è oggetto
dell’unanime desiderio maschile; un capitano che sguscia annualmente dalla propria
pelle, raccolta e imbottita dalla moglie, che colleziona i simulacri; un padre trasformato
in un modesto vulcano, che mette in riga la propria famiglia eruttando fango; un
tizio ridotto allo stato liquido e contenuto in un bidone che viene regolarmente
schiumato…
L’autore non si sofferma
a spiegarci il come e il perché della trasformazione, proprio come fa Kafka con
Gregor Samsa: a differenza di quest’ultimo, però, i mostri di Wilcock non vedono
la propria esistenza paralizzata e poi spezzata dalla metamorfosi, e si industriano
a ricreare intorno alla loro nuova forma una routine quotidiana e un minimo di normalità
piccolo-borghese. La sopraggiunta mostruosità, infatti, non li emargina, ma si limita
a rendere visibile ciò che prima non lo era: solo dopo essere diventato un lucido
portacenere di legno, per esempio, il signor Zulemo Moss si è reso conto che la
sua grande ambizione è quella di far danno agli altri. È il portacenere più cattivo
d’Italia, ma, in quanto oggetto inanimato, forzatamente innocuo. Ecco perché passa
il suo tempo a immaginare atroci vendette contro chiunque, rivelandosi come la versione
wilcockiana di un hater perfetto. E di simili visioni profetiche sull’Italia di
oggi, dobbiamo ammetterlo, la narrativa di Wilcock sembra traboccare.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’aprile 2019