Manuel Puig
Lontano dall’Argentina. Puig, dalla censura all’esilio
È quasi impossibile affrontare The Buenos Aires Affair, terzo romanzo di
Manuel Puig appena riproposto da Sur (pag. 253, e. 16,50) e pubblicato per la prima
volta da Editorial Sudamericana nel 1973, senza fare riferimento al singolare destino
del libro e al ruolo che ebbe nell’allontanare l’autore dall’Argentina, dove non
sarebbe mai più tornato. Dopo la buona accoglienza riservata a Il tradimento di Rita Hayworth, opera prima
apparsa nel 1968, e poi a Una frase, un rigo
appena (Sur, 2018), entrambi fondati sull’infanzia e l’adolescenza vissute a
General Villegas (il paese della pampa seca dove Puig era nato nel 1932),
The Buenos Aires Affair fu infatti preso
di mira dalla censura e ritirato dalle librerie, per ritornarvi costellato di cancellature
– un industrioso lavoro artigianale, eseguito da mani armate di bianchetto – e finire
al macero dopo breve tempo.
Se la motivazione ufficiale parlava di pornografia,
una condanna così radicale aveva ragioni ben diverse, come dimostra l’acuta analisi
di Vittoria Martinetto, autrice di un saggio ora incluso nel suo Manuel Puig reloaded (Fili d’Aquilone 2016).
Uscito in perfetta coincidenza con la vittoria elettorale del peronista Héctor Campora,
il romanzo, pieno di riferimenti ostili al primo peronismo, risultava scomodo e
quasi inaccettabile nel contesto di allora, mentre si attendeva il definitivo ritorno
di Perón dall’esilio; un ritorno segnato, tra l’altro, dal massacro dei peronisti
di sinistra e dalla figura inquietante di López Rega, creatore della Triple A, l’organizzazione
paramilitare che, dopo il sequestro di The
Buenos Aires Affair, minacciò di morte l’autore, contribuendo a spingerlo verso
l’esilio, prima in Messico, poi a New York, quindi in Brasile e di nuovo in Messico,
dove sarebbe morto nel 1990. Tutte le sue opere successive – copioni per il teatro
e il cinema, una raccolta di racconti e cinque romanzi, che gli garantirono un vasto
successo internazionale – vennero scritte e pubblicate lontano dall’Argentina, ormai
governata da una dittatura che proibì i libri di Puig, la cui assenza dalle librerie
si prolungò anche durante i primi anni della democrazia, fino a una rivalutazione
critica avvenuta solo a metà degli anni ’90.
The Buenos Aires Affair, dunque, segna una definitiva frattura tra
lo scrittore e il suo paese, dove si era sempre sentito un estraneo e dove pativa,
inoltre, l’incomprensione dei circoli letterari, fedeli a un canone imperniato sul
duo Borges/Cortázar (entrambi sprezzanti nei confronti del “nuovo arrivato”: Borges
liquidò i suoi romanzi come “libri Max Factor”, Cortázar lo definì un “lector femenino”),
che sembrava spingerlo ai margini, com’era accaduto un tempo a Roberto Arlt. Pareva
infatti che nessuno riuscisse a cogliere la magnifica anomalia della sua opera,
che la collegava alle avanguardie tanto detestate da Borges (non a caso Ricardo
Piglia, nel suo Las tres vanguardias,
individua in Puig, Saer e Walsh gli autori argentini capaci di pensare nuove forme
letterarie), e che si fondava sulla novità rappresentata dal ricorso all’elemento
melodrammatico estratto da materiali come il cinema – passione incontenibile sin
dall’infanzia -, la radio, le canzonette, le riviste femminili, il romanzo rosa,
il feuilleton, insomma da tutto ciò che contribuiva a un’educazione sentimentale
– o a un bovarismo? – di massa.
Rompendo con gli stereotipi del romanzo tradizionale,
Puig perseguì altri modi di narrare, nascondendo la presenza autoriale dietro una
molteplicità di voci, al fiume della chiacchiera e a un’oralità dialogata, e introducendo
temi che all’epoca apparivano impensabili, come la violenza e l’inganno che definiscono
sia la trama sociale, l’amore tra uomini e le relazioni tra corpi soggetti a rigide
norme di genere.
Potremmo dire che The Buenos Aires Affair segnala la presenza di una triplice frattura,
perché, oltre a scegliere l’esilio e a prendere le distanze dalla cultura argentina,
Puig cambia il corso della sua scrittura e ne radicalizza l’estetica, ne accentua
la sotterranea qualità politica, obbliga il lettore a riunire elementi dispersi
e informazioni monche, esplorando uno per uno gli strati sovrapposti della vicenda.
Oltre a spingere più lontano la sperimentazione, si allontana dallo scenario dei
primi e fortunati romanzi: non più la provincia del “piccolo paese, grande inferno”,
ma Buenos Aires, metropoli in cui si consumano gli ultimi giorni di vita del potente
critico d’arte Leo Druscovich, amante e poi rapitore di Gladys D’Onofrio, artista
d’avanguardia che, proprio come l’autore del romanzo, realizza le sue opere con
oggetti di scarto e trouvailles dimenticate.
Nel mettere in scena le vicende di due personaggi
che portano all’estremo gli stereotipi maschili e femminili – Leo, aggressivo e
brutale, prova piacere solo con donne che gli resistono, mentre Gladys, supremamente
passiva, soffre di manie suicide perché sempre esclusa dal ruolo di “vera donna”,
cioè di moglie –, tra violenze, sparizioni, un omicidio commesso da Leo durante
lo stupro casuale di un ragazzo, menzogne su un delitto immaginario ideate per mascherare
quello vero, e infine la costante attività masturbatoria dei protagonisti (quasi
un’allegoria del discorso politico nazionale) Puig si inoltra in oscuri labirinti
privati, che rimandano però a quello pubblico e collettivo, più tenebroso ancora,
dal quale l’Argentina non sapeva trovare l’uscita, e che sfocerà in una nuova dittatura.
Lo fa costruendo molteplici travestimenti e
ricorrendo a una serie di equivoci, a cominciare da un sottotitolo che annuncia
un “Romanzo poliziesco”, là dove il genere è puro pretesto per alludere a una società
criminale e criminosa; quanto a Leo, sotto l’apparenza di un dominus delle arti,
è uno stupratore, un delatore, un assassino la cui esistenza sembra dominata da
un enorme fallo mai soddisfatto; quanto a Gladys, sciocca e bruttina, si vede e
si sogna come un doppio delle splendide dive hollywoodiane presenti in epigrafe
a ogni inizio di capitolo, dove citazioni delle scene di film famosi compongono
un significativo paratesto; infine, i poliziotti difensori della legge la violano
di continuo attraverso prevaricazioni e torture, la psicanalisi si risolve in pura
chiacchiera, l’arte in strumento di potere, l’incontro amoroso in aggressione.
Eppure, alla fine, qualcosa ci fa capire che
Puig non ha perso la compassione verso i suoi personaggi, così evidente nei primi
due romanzi e che riaffiorerà anche in quelli successivi. Per quanto fosco, l’audace
e sorprendente The Buenos Aires Affair,
con il suo andamento sincopato e l’atmosfera da film noir, prevede un finale quasi
lieto: se Leo non può che perire a causa di un ultimo e rovinoso equivoco, la misera,
ridicola Gladys sfiora per un attimo la “vita vera”, e si vede concedere una possibilità
di speranza.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nell’aprile del 2019.