mercoledì 8 maggio 2019

Da leggere: Nona Fernández



Nona Fernández


Un Bruce Lee di quartiere

In Cile, la transición a la democracia, ovvero il passaggio dalla dittatura a un governo regolarmente eletto, fu un processo del quale il potere militare non perse mai il controllo, imponendo ulteriori politiche neoliberiste, impunità, silenzio e oblio, così che presente e futuro del paese non fossero turbati da voci scomode che reclamavano i corpi dei desaparecidos, denunciavano torture e sequestri, chiedevano di fare i conti col passato. Una gigantesca reductio ad silentium che ha avuto profonde ripercussioni sulla scena letteraria degli anni Novanta, quando gli ammutoliti scrittori cileni, messi a tacere oppure emigrati dopo il colpo di stato, ritrovarono la voce e manifestarono atteggiamenti contrastanti nei confronti della memoria collettiva, rimuovendola radicalmente o, all’opposto, attingendovi con abbondanza e in modi assai diversi. Solo con il nuovo secolo si sarebbe affermata quella che critici come Rodrigo Cánovas o Ignacio Echeverría definiscono rispettivamente “letteratura dell’orfanezza” o “romanzo dei figli della dittatura”, prodotta da coloro che sono stati bambini sotto il regime di Pinochet, e la cui voce implica la necessità reinterpretare il presente alla luce della catastrofe che l’ha prodotto.

Tra questi “figli” c’è Nona Fernández, attrice di teatro, drammaturga, sceneggiatrice, che dopo l’esordio con un libro di racconti, nel 2000, ha pubblicato sei romanzi e si è rivelata una delle migliori scrittrici di oggi in lingua spagnola. Decisa a incorporare nei suoi testi l’intreccio tra la realtà contemporanea e quella parte di storia cilena che corrisponde alla sua infanzia e adolescenza, Fernández (che è nata nel 1971, due anni prima del golpe) osserva i cambiamenti politici, economici, sociali e culturali avvenuti nel Cile post dittatura e li riconduce all’oscurità di quegli anni, travolgendo i confini tra generi e destabilizzando la memoria addomesticata concessa dalle istituzioni.

Mentre i personaggi dei suoi primi romanzi goticheggianti e cupi, Mapocho (gran vía 2017) e Av. Diez de Julio Huamachuco, vengono distrutti dal bisogno di decifrare i segni e le tracce che il passato ha impresso sul presente, diversa è la sorte del personaggio centrale di Fuenzalida appena uscito da gran via nella traduzione di Carlo Alberto Montalto –, terzo romanzo i cui numerosi sottotesti compongono un insieme perfettamente equilibrato, fondendo elementi testimoniali, onirici, autobiografici. Nona Fernández e la sua protagonista, che racconta in prima persona, si rispecchiano l’una nell’altra: hanno in comune l’abbandono precoce di un padre tornato dalla sua famiglia “ufficiale”, il mestiere di sceneggiatrice di culebrones, un bambino che vuole sapere del nonno materno mai conosciuto e che non riceve risposta, perché la memoria della madre lo ha quasi cancellato. La protagonista, però, a differenza della sua autrice, ha anche un matrimonio fallito alle spalle e, tra le mani, la minuscola foto caduta da un sacco della spazzatura, davanti a casa sua, che mostra un uomo aitante, con folte basette anni Settanta, un pesante ciondolo al collo e un kimono da kung fu: è Fuenzalida, suo padre, del quale non sa più nulla da un’infinità di anni. Da dove spunta, quella foto? E che fine ha fatto quell’ammaliante Bruce Lee di quartiere?

Mentre il bambino Cosme, durante il week end mensile col padre separato, cade in un sonno profondo a causa di un minuscolo ematoma cerebrale, la madre comincia una frenetica caccia ai ricordi, per dare una risposta a sé stessa, ma soprattutto al figlio quando si sveglierà, tra i dinosauri di plastica e il libro sui draghi cinesi che lo vegliano dal comodino dell’ospedale. Il passato, però, è immerso in una nebbia da cui emergono rari frammenti, e l’unico modo di recuperarlo è usare l’immaginazione, per avviare un negoziato che consenta di scrivere sul foglio bianco della memoria. La protagonista cede così la parola, in due lunghi capitoli, a un onnisciente, imprecisato narratore, dal quale apprenderemo la storia di Fuenzalida, costretto a insegnare arti marziali a un gruppo di torturatori clandestino e temutissimo, che gli ha sequestrato il figlio. Per questo è sparito dalla vita della sua bambina: per proteggerla, per salvarla.

La memoria, pur così vaga, si modella dunque sulle necessità del presente, ma senza sterilizzare il passato; interrogandolo, piuttosto, per spezzarne il silenzio e collocare Fuenzalida sullo sfondo reale di Santiago, la cui mappa coincide con quella della repressione: strade dove si viene sequestrati in pieno giorno, case segrete destinate alla sistematica tortura degli oppositori, scuole sorvegliate. E accanto al “maestro” in kimono nero, ecco personaggi autentici e, nonostante i nomi fittizi, perfettamente riconoscibili, come Fuentes Castro (alias El Wally, uno degli agenti più misteriosi e feroci dell’epoca, poi ucciso dal MIR), o Papudo, il torturatore pentito che ritroveremo in La dimensione oscura (l’ultimo romanzo di Fernández e il suo migliore, pubblicato da gran vía nel 2018), o Sebastián Acevedo, un operaio che invece compare con il suo vero nome e che si bruciò vivo per ottenere la liberazione dei suoi figli, sequestrati dalla DINA. Come in tutti i suoi romanzi, l’autrice trova modo di inserire nel racconto, accanto ai carnefici, i corpi devastati di vittime emarginate dalla narrazione ufficiale, raccontandoci le loro storie, restituendo loro un nome.

Per costruire diverse ipotesi di padre (perché questo è anche un romanzo di padri e di figli, veri o inventati, privati e pubblici, simbolici e in carne e ossa, che rappresentano quasi sempre, nel bene e nel male, un vuoto, un’assenza), Fernández e il suo alter ego romanzesco utilizzano materiali d’ogni tipo, tratti in buona parte dalla cultura pop, ma non solo: l’inchiesta, la letteratura più sofisticata e quella popolare, i film di arti marziali, le telenovelas, la fotografia (la scrittrice ha partecipato alla stesura del copione di uno splendido documentario cileno sugli anni della dittatura, La ciudad de los fotografos), mescolando con grande abilità, senza complessi, i generi più nobili e i più kitsch. E mentre l’autrice lancia e riprende di continuo i molti fili della narrazione, collegandoli in una ragnatela tenuta insieme da una scrittura avvolgente e non priva di ironia, la sua protagonista capisce che potrà servirsi di quella memoria ipotizzata, e forse simile a un atto di fede, per fondare una genealogia mitica – nella quale, comunque la realtà non può fare a meno di insinuarsi – da sottoporre al suo bambino appena guarito, perché, attraverso l’invenzione di passati possibili da sostituire alla rimozione e al silenzio, si arrivi a disarticolare il discorso del potere e a costruire un altro immaginario.

 

 

Questo articolo è apparso sul quotidiano Il manifesto nel maggio del 2019