Un Bruce Lee di quartiere
In Cile, la transición a la democracia,
ovvero il passaggio dalla dittatura a un governo regolarmente eletto, fu un
processo del quale il potere militare non perse mai il controllo, imponendo
ulteriori politiche neoliberiste, impunità, silenzio e oblio, così che presente
e futuro del paese non fossero turbati da voci scomode che reclamavano i corpi
dei desaparecidos, denunciavano torture e sequestri, chiedevano di fare
i conti col passato. Una gigantesca reductio ad silentium che ha avuto
profonde ripercussioni sulla scena letteraria degli anni Novanta, quando gli
ammutoliti scrittori cileni, messi a tacere oppure emigrati dopo il colpo di
stato, ritrovarono la voce e manifestarono atteggiamenti contrastanti nei
confronti della memoria collettiva, rimuovendola radicalmente o, all’opposto,
attingendovi con abbondanza e in modi assai diversi. Solo con il nuovo secolo
si sarebbe affermata quella che critici come Rodrigo Cánovas o Ignacio
Echeverría definiscono rispettivamente “letteratura dell’orfanezza” o “romanzo
dei figli della dittatura”, prodotta da coloro che sono stati bambini sotto il
regime di Pinochet, e la cui voce implica la necessità reinterpretare il
presente alla luce della catastrofe che l’ha prodotto.
Tra questi “figli” c’è Nona Fernández,
attrice di teatro, drammaturga, sceneggiatrice, che dopo l’esordio con un libro
di racconti, nel 2000, ha pubblicato sei romanzi e si è rivelata una delle
migliori scrittrici di oggi in lingua spagnola. Decisa a incorporare nei suoi
testi l’intreccio tra la realtà contemporanea e quella parte di storia cilena
che corrisponde alla sua infanzia e adolescenza, Fernández (che è nata nel
1971, due anni prima del golpe) osserva i cambiamenti politici, economici,
sociali e culturali avvenuti nel Cile post dittatura e li riconduce all’oscurità
di quegli anni, travolgendo i confini tra generi e destabilizzando la memoria
addomesticata concessa dalle istituzioni.
Mentre i personaggi dei suoi primi romanzi
goticheggianti e cupi, Mapocho (gran vía 2017) e Av. Diez de Julio Huamachuco,
vengono distrutti dal bisogno di decifrare i segni e le tracce che il passato
ha impresso sul presente, diversa è la sorte del personaggio centrale di Fuenzalida
– appena uscito da gran via nella traduzione di Carlo Alberto Montalto –,
terzo romanzo i cui numerosi sottotesti compongono un insieme perfettamente
equilibrato, fondendo elementi testimoniali, onirici, autobiografici. Nona
Fernández e la sua protagonista, che racconta in prima persona, si rispecchiano
l’una nell’altra: hanno in comune l’abbandono precoce di un padre tornato dalla
sua famiglia “ufficiale”, il mestiere di sceneggiatrice di culebrones,
un bambino che vuole sapere del nonno materno mai conosciuto e che non riceve
risposta, perché la memoria della madre lo ha quasi cancellato. La
protagonista, però, a differenza della sua autrice, ha anche un matrimonio
fallito alle spalle e, tra le mani, la minuscola foto caduta da un sacco della
spazzatura, davanti a casa sua, che mostra un uomo aitante, con folte basette
anni Settanta, un pesante ciondolo al collo e un kimono da kung fu: è
Fuenzalida, suo padre, del quale non sa più nulla da un’infinità di anni. Da
dove spunta, quella foto? E che fine ha fatto quell’ammaliante Bruce Lee di
quartiere?
Mentre il bambino Cosme, durante il week end
mensile col padre separato, cade in un sonno profondo a causa di un minuscolo
ematoma cerebrale, la madre comincia una frenetica caccia ai ricordi, per dare
una risposta a sé stessa, ma soprattutto al figlio quando si sveglierà, tra i
dinosauri di plastica e il libro sui draghi cinesi che lo vegliano dal comodino
dell’ospedale. Il passato, però, è immerso in una nebbia da cui emergono rari
frammenti, e l’unico modo di recuperarlo è usare l’immaginazione, per avviare
un negoziato che consenta di scrivere sul foglio bianco della memoria. La
protagonista cede così la parola, in due lunghi capitoli, a un onnisciente,
imprecisato narratore, dal quale apprenderemo la storia di Fuenzalida,
costretto a insegnare arti marziali a un gruppo di torturatori clandestino e
temutissimo, che gli ha sequestrato il figlio. Per questo è sparito dalla vita
della sua bambina: per proteggerla, per salvarla.
La memoria, pur così vaga, si modella
dunque sulle necessità del presente, ma senza sterilizzare il passato;
interrogandolo, piuttosto, per spezzarne il silenzio e collocare Fuenzalida
sullo sfondo reale di Santiago, la cui mappa coincide con quella della
repressione: strade dove si viene sequestrati in pieno giorno, case segrete
destinate alla sistematica tortura degli oppositori, scuole sorvegliate. E
accanto al “maestro” in kimono nero, ecco personaggi autentici e, nonostante i
nomi fittizi, perfettamente riconoscibili, come Fuentes Castro (alias El Wally,
uno degli agenti più misteriosi e feroci dell’epoca, poi ucciso dal MIR), o
Papudo, il torturatore pentito che ritroveremo in La dimensione oscura (l’ultimo
romanzo di Fernández e il suo migliore, pubblicato da gran vía nel 2018), o
Sebastián Acevedo, un operaio che invece compare con il suo vero nome e che si
bruciò vivo per ottenere la liberazione dei suoi figli, sequestrati dalla DINA.
Come in tutti i suoi romanzi, l’autrice trova modo di inserire nel racconto,
accanto ai carnefici, i corpi devastati di vittime emarginate dalla narrazione
ufficiale, raccontandoci le loro storie, restituendo loro un nome.
Per costruire diverse ipotesi di padre
(perché questo è anche un romanzo di padri e di figli, veri o inventati,
privati e pubblici, simbolici e in carne e ossa, che rappresentano quasi
sempre, nel bene e nel male, un vuoto, un’assenza), Fernández e il suo alter
ego romanzesco utilizzano materiali d’ogni tipo, tratti in buona parte dalla
cultura pop, ma non solo: l’inchiesta, la letteratura più sofisticata e quella
popolare, i film di arti marziali, le telenovelas, la fotografia (la scrittrice
ha partecipato alla stesura del copione di uno splendido documentario cileno
sugli anni della dittatura, La ciudad de los fotografos), mescolando con
grande abilità, senza complessi, i generi più nobili e i più kitsch. E mentre l’autrice
lancia e riprende di continuo i molti fili della narrazione, collegandoli in
una ragnatela tenuta insieme da una scrittura avvolgente e non priva di ironia,
la sua protagonista capisce che potrà servirsi di quella memoria ipotizzata, e
forse simile a un atto di fede, per fondare una genealogia mitica – nella
quale, comunque la realtà non può fare a meno di insinuarsi – da sottoporre al
suo bambino appena guarito, perché, attraverso l’invenzione di passati
possibili da sostituire alla rimozione e al silenzio, si arrivi a disarticolare
il discorso del potere e a costruire un altro immaginario.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nel maggio del 2019