Kati Horna |
Kati Horna, messicana “per convinzione”
Il cartoncino, segnato da pallidi timbri, porta
l’intestazione della Oficina de Propaganda Exterior e, in data 17 maggio 1937, afferma
che la tal compagna fa parte della suddetta Oficina e può quindi circolare ovunque.
Un rettangolino vuoto rivela l’assenza di una foto-tessera strappata via: quella
di Kati Deutsch, nata a Budapest nel 1912 in una famiglia ebrea colta e benestante
e arrivata in Spagna su invito della CTN-FAI, per realizzare un libro fotografico
che si intitolerà España? Un libro de imágenes sobre cuentos y calumnias fascistas:
el álbum de propaganda antifascista.
Già allora Kati, reduce da soggiorni a Berlino
e a Parigi durante i quali aveva approfondito il suo interesse per la fotografia,
era la donna forte, avventurosa, accogliente e intensamente creativa che molti anni
dopo l’editore messicano José Luis Díaz avrebbe descritto così: “Aristocratica per
ascendenza, anarchica per convinzione, seduttrice per natura e vagabonda per
vocazione”. Una ragazza dalla bellezza assorta e priva di civetteria, che sin da
adolescente si era interessata di politica, restando colpita dalle idee di Lajos
Kassák, singolare figura di intellettuale convinto che l’arte fosse uno strumento
fondamentale per cambiare la società.
In Spagna aveva ritrovato compatrioti e amici
come Robert Capa, Chiki Weisz, Gerda Taro, e altri fotografi di guerra come David
Seymour e la polacca Margaret Michaelis: c’erano una rivoluzione da difendere e
una lotta da documentare, e lei lo fece prima sul fronte di Aragona, poi nel sud
del paese, quindi a Madrid e a Barcellona, dove fotografò i bombardamenti italiani
ma anche i bambini del barrio Chino e gli eroici spettacoli degli artisti di strada.
Intanto era diventata Kati Horna, il suo nome ultimo e definitivo, dopo aver sposato
l’andaluso José Horna, pittore e illustratore brillantissimo, con il quale aveva
molto in comune: se lei si considerava un’operaia della fotografia, lui si autodefiniva
un artigiano.
Diventata la reporter ufficiale della Spanish
Photo Agency, agenzia anarchica, Kati scattò circa un migliaio di fotografie, ma
quando lei e il marito si rifugiarono in Francia – dove José venne rinchiuso in
uno degli spaventosi campi di concentramento destinati ai profughi spagnoli – e
poi raggiunsero il Messico, riuscirono a portare con loro solo duecentosettanta
negativi chiusi in una scatola di latta, che nel 1983 Kati vendette al governo spagnolo
e che oggi sono conservati nell’Archivo General de la Guerra Civil Espanola di Salamanca,
sul cui sito si legge: “La maggior parte
della serie fotografica realizzata da Kati Horna durante la Guerra Civile, probabilmente
è dispersa o distrutta”. Questa frase, però, è destinata a scomparire in fretta,
perché gli altri negativi, quasi seicento, esistono ancora.
Chiusi dal 1939 in una delle quarantotto casse
di legno che contengono gli archivi della CNT, partiti da Barcellona per affrontare
un complicato viaggio verso il porto sicuro dell’Istituto Internazionale di Storia
Sociale di Amsterdam, sono stati scoperti una settimana fa da Almudena Rubio, una
storica dell’arte che si è imbattuta in un tesoro simile a quello contenuto nella
famosa maleta mexicana, la valigetta con i negativi di Capa, Seymour e Taro,
affidati a Chiki Weisz che, in fuga dall’esercito tedesco, la portò in bicicletta
da Parigi a Bordeaux, dove la valigia scomparve per riapparire nel 1994 e, a partire
dal 2008, girare il mondo da una mostra all’altra, diventando infine un libro.
La speranza è che anche ai negativi di Horna
tocchi la stessa sorte e che il ritrovamento contribuisca a gettare ulteriore luce
non solo sui giorni della guerra civile, ma sull’opera e la figura di una donna
d’eccezione, cui negli ultimi anni sono state dedicate mostre e libri di grande
interesse – per esempio l’indispensabile Kati Horna: Constelaciones de sentido
di Lisa Pellizon (Sans Soleil 2015) –, in cui si dispiegano le molte vite di una
grande fotografa mai abbastanza riconosciuta. Una reporter di guerra, sì, ma assai
diversa da Robert Capa, per il quale la foto era buona solo se drammaticamente scattata
nel cuore dell’azione. Per Kati, scrive Ángeles Alonso Espinosa, la sovraesposizione
banalizzava la violenza: “Aveva un modo completamente diverso di simbolizzarla,
molto legato al suo percorso personale”. Anche quando fotografava i soldati lo faceva
lontano dal combattimento, e amava concentrarsi sulla gente comune e sul suo quotidiano
contatto con la guerra, ma anche sugli ambienti devastati, gli oggetti, i simulacri
del corpo umano. E i negativi ritrovati, sottolinea Rubio, confermano il suo desiderio
di privilegiare il racconto piuttosto che la notizia, senza mai dimenticare di essere,
oltre che fotografa, una militante, la stessa che nel 1937 aveva realizzato la potente
serie satirica Hitlerei, con il dittatore in veste di uovo alla coque.
La vita a Città del Messico, in una casa della
Colonia Roma che chiunque l’abbia conosciuta definiva magica e fuori del tempo,
le consentirà di continuare un lavoro che esprimeva la sua solidarietà con i diseredati
e la necessità di un’emancipazione autentica, ma anche di dedicarsi a nuove esplorazioni
artistiche, spesso in collaborazione col marito, costruendo oggetti, manipolando
negativi, creando onirici fotomontaggi in cui molti hanno creduto di riconoscere
una vena surrealista. Kati, però, rifiutava questa etichetta, che a suo parere le
veniva assegnata solo per la sua amicizia con due pittrici celebri, esuli come lei
e un tempo vicine al surrealismo: la spagnola Remedios Varo, seducente e stravagante,
e Leonora Carrington, lady inglese dalla vita tormentata che aveva trovato la pace
sposando Chiki Weisz (il matrimonio era avvenuto proprio in casa Horna) e sciogliendo
definitivamente i lacci che per troppo tempo l’avevano legata all’immagine delle
femme-enfant surrealista.
Le tre streghe, le chiamavano, anche se la
definizione si adattava soprattutto alle altre due, cultrici di esoterismo e scienze
arcane, che nelle loro cucine sperimentavano ricette impossibili e pozioni indigene.
Kati, solida e attenta, anarchica mai pentita con una robusta coscienza sociale,
tra loro sembrava quasi fuori posto, ma condivideva con entrambe l’amore per la
nuova patria (tutte e tre erano “messicane per convinzione”, oltre che per cittadinanza)
i ricordi della guerra civile e quel sereno riconoscimento della rispettiva autorevolezza
che, unito alla capacità di ridere insieme, rende indistruttibile un’amicizia femminile.
Kati era colei che, fissando sulla pellicola le feste in famiglia, le riunioni e
gli scherzi, i travestimenti, gli interni domestici in cui si espandevano attività
quotidiane trasfigurate dall’immaginazione, stabiliva un contesto, svelava la sotterranea
intesa che conferiva alle loro vite una gioiosa stabilità, disegnava la mappa di
un ritrovato potere femminile. Senza Horna, è difficile capire le altre due brujas,
tanto che la loro ferrea amicizia è stata celebrata a Chichester, nel 2010, dalla
mostra Surreal Friends, in cui ciascuna delle tre appare come la parte di un tutto
straordinario.
E senza le foto infine ritrovate nelle casse
di Amsterdam, è forse impossibile capire Kati Horna fino in fondo e sistemare al
suo posto l’ultimo tassello, quello che manca da troppo tempo.
Questo articolo è apparso sul quotidiano Il
manifesto nell’agosto del 2019