mercoledì 11 settembre 2019

Storie e Ritratti: La città dei Cesari




Una leggenda senza fine

“… Una fortezza di montagna, situata ai piedi di un vulcano e sovrastante un bellissimo lago. C’era un fiume, il Río Diamante, ricco di oro e pietre preziose. Ci volevano due giorni per attraversare la città, che aveva un’unica entrata difesa da un ponte levatoio. Gli edifici erano di pietra scolpita, le porte tempestate di gioielli, i vomeri erano d’argento e il mobilio della più umile dimora d’argento e d’oro. Non esistevano malattie; i vecchi morivano serenamente, come colti dal sonno. Gli uomini portavano cappelli a tricorno, giacche blu e mantelli gialli (colori dell’Essere Supremo nella mitologia india). Coltivavano pepe, e le foglie dei loro ravanelli erano così grandi che ci si poteva legare un cavallo”.

Così, nel suo In Patagonia Bruce Chatwin parla della Ciudad de los Césares, la Città dei Cesari, che gli viene in mente una volta arrivato a Paso Roballos (“Sembrava proprio il luogo della Città d’Oro, e forse lo era”), l’estrema frontiera meridionale tra Cile e Argentina, tra montagne dai colori inverosimili, un lago dalle sponde di un bianco accecante, lagune blu zaffiro, migliaia di cigni dal collo nero e fenicotteri rosa.

La pagina che il viaggiatore inglese dedica alla leggenda è sbrigativa, e dà ovviamente conto solo di una delle sue tante versioni, che dalla metà del XVI secolo fino alle soglie del XIX collocano la città sempre più a sud, in luoghi sempre diversi, quali una valle fertile e dal clima mite, nascosta tra le montagne dell’inospitale Patagonia, oppure un’isola al centro di un lago. E diversi sono, a seconda del racconto, gli abitanti e le loro caratteristiche: uomini bianchi, alti e biondi, che parlano una lingua misteriosa; mitimaes (coloni inca) in fuga dagli invasori; spagnoli perduti; e nelle versioni più esoteriche compaiono addirittura dei templari europei che, all’arrivo dei conquistatori, svaniscono insieme al sacro calice del Graal. Alcuni elementi, però, sono comuni a ogni narrazione: in primo luogo l’immensa quantità di oro, argento e gemme di cui dispongono los Césares, e poi la separatezza, l’isolamento.

La paradisiaca Città dei Cesari, timorosa del mondo esterno e gelosa dei suoi tesori, era segreta e inafferrabile quanto altri luoghi mitici del Nuovo Mondo, che nel 1929 lo storico argentino Enrique de Gandía elenca nella sua Historia Crítica de los Mitos de la Conquista Americana: la Fonte dell’eterna giovinezza, le Sette Città di Cibola, la Sierra de la Plata con il suo Re Bianco, il Gran Paitití, Eldorado…

Il Sud del continente americano si presentava a occhi europei come una mappa vuota da riempire con luoghi e presenze per nulla comprovabili, ma presentati e accettati come veri, accostando mostri, giganti e pericoli mai visti al miraggio di strabilianti ricchezze e, forse, anche all’idea di un’Età dell’Oro ricavata da favolose narrazioni su Paesi di Cuccagna e Isole Felici, con il loro carico di visioni, simboli e miraggi. E, nonostante il successo scarso o nullo delle innumerevoli caccie al tesoro condotte attraverso il continente, il potere delle leggende non diminuiva, nutrendosi della meraviglia che una cultura “caratterizzata da un’immensa fiducia nella propria centralità” (come ci ricorda Stephen Greenblatt nel suo magnifico Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Il Mulino 1994) ricavava dall’incontro con un’alterità considerata assoluta e impenetrabile.

Il viaggio di Colombo “inaugurò un secolo di intenso stupore” (è sempre Greenblatt a sottolinearlo) e diede inizio a una sanguinaria e proditoria conquista che includeva la pretesa dell’abbandono immediato di credenze e costumi autoctoni, per adottare quelli di una superiore civiltà e della sua religione, l’unica vera; ma fu anche il punto di partenza di un’autentica invenzione dell’America, a partire da una “riserva di rappresentazioni” generate dall’immaginario, ancor più che dall’esperienza. Rappresentazioni difficili da demolire perché necessarie, scrive alla fine degli anni ’30 l’argentino Ezequiel Martínez Estrada in Radiografía de la Pampa, per non cedere alla delusione provocata dal contrasto fra la realtà (ricchezze introvabili, un futuro che non arrivava mai a compiersi) e le aspettative che l’ansia di avventura, il desiderio di arricchirsi e la forza del mito erano riuscite a creare.

Per più di tre secoli la leggenda della Città dei Cesari fu al centro di esplorazioni, ricerche e spedizioni armate, provocò naufragi, inghiottì drappelli di soldati e fece scorrere fiumi di inchiostro. Non c’è dubbio, però, che alla sua nascita abbiano contribuito anche elementi storici: il primo è il viaggio di Sebastiano Caboto, che nel 1526 era partito dalla Spagna per cercare una rotta verso le Molucche attraverso lo stretto di Magellano, ma che rimase colpito dal racconto dei reduci di un’altra spedizione (quella del 1516 in cui Juan Diz de Solìs aveva risalito il Rio de la Plata) su luoghi traboccanti d’oro e d’argento. Caboto cambiò rotta, e con poca fortuna, ma uno dei suoi uomini più fidati, il capitano Francisco César, gli chiese il permesso di condurre pochi uomini in una esplorazione verso ovest. Da lui e dalla sua pattuglia prende nome la Città dei Cesari, incontrata, si dice, nel corso di un cammino che nel corso di due mesi e mezzo li aveva portati non certo in Patagonia, ma fino alle sierras di Cordoba, dove avrebbero visto una città piena di tesori e abitata da indios accoglienti: una storia che, passando bocca in bocca e di cronaca in cronaca, assunse connotati sempre più fiabeschi, incrociandosi più tardi con la notizia (successiva alla conquista del Perù da parte di Pizarro) su una schiera di inca carichi di ricchezze e in fuga verso sud, dove avrebbero fondato una città.

Altre spedizioni (numerose e puntualmente fallite), molte fughe e svariati naufragi, come quello della spedizione del Vescovo di Plasencia nello stretto di Magellano, nel 1540, popolarono la Patagonia di “spagnoli perduti” – naufraghi, disertori o profughi – che la voce corrente mise in relazione con il ricco e misterioso insediamento inca, e l’incrociarsi di versioni sempre più complesse e fantasiose aggiunse alla storia connotazioni apertamente magiche: la Città poteva prodigiosamente cambiare posto, i suoi abitanti non nascevano né morivano, a proteggerla degli estranei era una barriera di nebbia che si sarebbe dissipata solo alla fine dei tempi… E se nella seconda metà del XVIII secolo l’amministrazione del Regno del Cile decise di indagare su quella che veniva ormai considerata solo una leggenda, fu perché le giunsero informazioni sull’esistenza di una città di uomini bianchi “che non parlavano spagnolo” e facevano sorgere il sospetto di una presenza inglese o olandese, ma anche per il dubbio che nella presunta Città dei Cesari risiedessero i discendenti degli abitanti di Osorno, distrutta dai mapuche durante la rivolta del 1598. Venne dunque intrapresa una nuova spedizione, l’ennesima, ma i riscontri erano deboli, i testimoni poco attendibili, e nel 1782 l’indagine fu definitivamente chiusa.

I viaggi scientifici del XIX secolo, intenzionati a separare il loglio delle “favole” dal grano dei riscontri oggettivi, parevano destinati a seppellire per sempre una storia dura a morire, e invece no: la Città dei Cesari sarebbe sopravvissuta attraverso una letteratura popolare abbondante e fortunata, ma anche nelle pagine di autori di buon mestiere come i cileni Hugo Silva con il suo Pacha Pulai (1935), o Luis Enrique Délano con En la Ciudad de los Césares (1939), e soprattutto Manuel Rojas, uno dei più importanti scrittori del Cile moderno, che Ricardo Piglia non esita a paragonare a Roberto Arlt. La sua opera giovanile La Ciudad de los Césares (1936), uscita a puntate su El Mercurio e poi ripubblicata come romanzo per adolescenti, è certo molto diversa dal resto della produzione di un autore ormai classico, ma non ne tradisce il forte impegno sociale e l’etica rigorosa: nelle pieghe dell’avventura, la città abitata da Césares Bianchi (discendenti dei naufraghi) e Neri (gli indios) si trasforma in una polis utopica e meticcia in cui si confrontano e convivono due visioni del mondo, quella del conquistatore e quella del conquistato.

  

Questo articolo è apparso sul quotidiano il manifesto nell’agosto del 2017