Una leggenda senza fine
“… Una fortezza di montagna, situata ai piedi
di un vulcano e sovrastante un bellissimo lago. C’era un fiume, il Río Diamante,
ricco di oro e pietre preziose. Ci volevano due giorni per attraversare la città,
che aveva un’unica entrata difesa da un ponte levatoio. Gli edifici erano di pietra
scolpita, le porte tempestate di gioielli, i vomeri erano d’argento e il mobilio
della più umile dimora d’argento e d’oro. Non esistevano malattie; i vecchi morivano
serenamente, come colti dal sonno. Gli uomini portavano cappelli a tricorno, giacche
blu e mantelli gialli (colori dell’Essere Supremo nella mitologia india). Coltivavano
pepe, e le foglie dei loro ravanelli erano così grandi che ci si poteva legare un
cavallo”.
Così, nel suo In Patagonia Bruce Chatwin parla della Ciudad de los Césares,
la Città dei Cesari, che gli viene in mente una volta arrivato a Paso Roballos
(“Sembrava proprio il luogo della Città d’Oro, e forse lo era”), l’estrema frontiera
meridionale tra Cile e Argentina, tra montagne dai colori inverosimili, un lago
dalle sponde di un bianco accecante, lagune blu zaffiro, migliaia di cigni dal collo
nero e fenicotteri rosa.
La pagina che il viaggiatore inglese dedica
alla leggenda è sbrigativa, e dà ovviamente conto solo di una delle sue tante versioni,
che dalla metà del XVI secolo fino alle soglie del XIX collocano la città sempre
più a sud, in luoghi sempre diversi, quali una valle fertile e dal clima mite, nascosta
tra le montagne dell’inospitale Patagonia, oppure un’isola al centro di un lago.
E diversi sono, a seconda del racconto, gli abitanti e le loro caratteristiche:
uomini bianchi, alti e biondi, che parlano una lingua misteriosa; mitimaes (coloni
inca) in fuga dagli invasori; spagnoli perduti; e nelle versioni più esoteriche
compaiono addirittura dei templari europei che, all’arrivo dei conquistatori, svaniscono
insieme al sacro calice del Graal. Alcuni elementi, però, sono comuni a ogni narrazione:
in primo luogo l’immensa quantità di oro, argento e gemme di cui dispongono los
Césares, e poi la separatezza, l’isolamento.
La paradisiaca Città dei Cesari, timorosa del
mondo esterno e gelosa dei suoi tesori, era segreta e inafferrabile quanto altri
luoghi mitici del Nuovo Mondo, che nel 1929 lo storico argentino Enrique de Gandía
elenca nella sua Historia Crítica de los Mitos de la Conquista Americana:
la Fonte dell’eterna giovinezza, le Sette Città di Cibola, la Sierra de la Plata
con il suo Re Bianco, il Gran Paitití, Eldorado…
Il Sud del continente americano si presentava
a occhi europei come una mappa vuota da riempire con luoghi e presenze per nulla
comprovabili, ma presentati e accettati come veri, accostando mostri, giganti e
pericoli mai visti al miraggio di strabilianti ricchezze e, forse, anche all’idea
di un’Età dell’Oro ricavata da favolose narrazioni su Paesi di Cuccagna e Isole
Felici, con il loro carico di visioni, simboli e miraggi. E, nonostante il successo
scarso o nullo delle innumerevoli caccie al tesoro condotte attraverso il continente,
il potere delle leggende non diminuiva, nutrendosi della meraviglia che una cultura
“caratterizzata da un’immensa fiducia nella propria centralità” (come ci ricorda
Stephen Greenblatt nel suo magnifico Meraviglia
e possesso. Lo stupore di fronte al Nuovo Mondo, Il Mulino 1994) ricavava dall’incontro
con un’alterità considerata assoluta e impenetrabile.
Il viaggio di Colombo “inaugurò un secolo di
intenso stupore” (è sempre Greenblatt a sottolinearlo) e diede inizio a una sanguinaria
e proditoria conquista che includeva la pretesa dell’abbandono immediato di credenze
e costumi autoctoni, per adottare quelli di una superiore civiltà e della sua religione,
l’unica vera; ma fu anche il punto di partenza di un’autentica invenzione dell’America,
a partire da una “riserva di rappresentazioni” generate dall’immaginario, ancor
più che dall’esperienza. Rappresentazioni difficili da demolire perché necessarie,
scrive alla fine degli anni ’30 l’argentino Ezequiel Martínez Estrada in Radiografía de la Pampa, per non cedere alla delusione provocata dal contrasto
fra la realtà (ricchezze introvabili, un futuro che non arrivava mai a compiersi)
e le aspettative che l’ansia di avventura, il desiderio di arricchirsi e
la forza del mito erano riuscite a creare.
Per più di tre secoli la leggenda
della Città dei Cesari fu al centro di esplorazioni, ricerche e spedizioni armate,
provocò naufragi, inghiottì drappelli di soldati e fece scorrere fiumi di inchiostro.
Non c’è dubbio, però, che alla sua nascita abbiano contribuito anche elementi storici:
il primo è il viaggio di Sebastiano Caboto, che nel 1526 era partito dalla Spagna
per cercare una rotta verso le Molucche attraverso lo stretto di Magellano, ma che
rimase colpito dal racconto dei reduci di un’altra spedizione (quella del 1516 in
cui Juan Diz de Solìs aveva risalito il Rio de la
Plata) su luoghi traboccanti d’oro e d’argento. Caboto cambiò rotta, e con poca
fortuna, ma uno dei suoi uomini più fidati, il capitano Francisco César, gli chiese
il permesso di condurre pochi uomini in una esplorazione verso ovest. Da lui e dalla
sua pattuglia prende nome la Città dei Cesari, incontrata, si dice, nel corso di
un cammino che nel corso di due mesi e mezzo li aveva portati non certo in Patagonia,
ma fino alle sierras di Cordoba, dove avrebbero visto una città piena di
tesori e abitata da indios accoglienti: una storia che, passando bocca in bocca
e di cronaca in cronaca, assunse connotati sempre più fiabeschi, incrociandosi più
tardi con la notizia (successiva alla conquista del Perù da parte di Pizarro) su
una schiera di inca carichi di ricchezze e in fuga verso sud, dove avrebbero fondato
una città.
Altre spedizioni (numerose
e puntualmente fallite), molte fughe e svariati naufragi, come quello della spedizione
del Vescovo di Plasencia nello stretto di Magellano, nel 1540, popolarono la Patagonia
di “spagnoli perduti” – naufraghi, disertori o profughi – che la voce corrente mise
in relazione con il ricco e misterioso insediamento inca, e l’incrociarsi di versioni
sempre più complesse e fantasiose aggiunse alla storia connotazioni apertamente
magiche: la Città poteva prodigiosamente cambiare posto, i suoi abitanti non nascevano
né morivano, a proteggerla degli estranei era una barriera di nebbia che si sarebbe
dissipata solo alla fine dei tempi… E se nella seconda metà del XVIII secolo l’amministrazione
del Regno del Cile decise di indagare su quella che veniva ormai considerata solo
una leggenda, fu perché le giunsero informazioni sull’esistenza di una città di
uomini bianchi “che non parlavano spagnolo” e facevano sorgere il sospetto di una
presenza inglese o olandese, ma anche per il dubbio che nella presunta Città dei
Cesari risiedessero i discendenti degli abitanti di Osorno, distrutta dai mapuche
durante la rivolta del 1598. Venne dunque intrapresa una nuova spedizione, l’ennesima,
ma i riscontri erano deboli, i testimoni poco attendibili, e nel 1782 l’indagine
fu definitivamente chiusa.
I viaggi scientifici del XIX
secolo, intenzionati a separare il loglio delle “favole” dal grano dei riscontri
oggettivi, parevano destinati a seppellire per sempre una storia dura a morire,
e invece no: la Città dei Cesari sarebbe sopravvissuta attraverso una letteratura
popolare abbondante e fortunata, ma anche nelle pagine di autori di buon mestiere
come i cileni Hugo Silva con il suo Pacha Pulai (1935), o Luis Enrique Délano
con En la Ciudad de los Césares (1939), e soprattutto Manuel Rojas, uno dei
più importanti scrittori del Cile moderno, che Ricardo Piglia non esita a paragonare
a Roberto Arlt. La sua opera giovanile La Ciudad de los Césares (1936), uscita
a puntate su El Mercurio e poi ripubblicata come romanzo per adolescenti, è certo
molto diversa dal resto della produzione di un autore ormai classico, ma non ne
tradisce il forte impegno sociale e l’etica rigorosa: nelle pieghe dell’avventura,
la città abitata da Césares Bianchi (discendenti dei naufraghi) e Neri (gli
indios) si trasforma in una polis utopica e meticcia in cui si confrontano e convivono
due visioni del mondo, quella del conquistatore e quella del conquistato.
Questo articolo è apparso
sul quotidiano il manifesto nell’agosto del 2017