Violeta Parra |
Violeta Parra, poeta
A pochi passi da Plaza Italia, nel centro di Santiago de Chile, c’è un edificio
basso e imponente (visto dall’alto, potrebbe assomigliare a una chitarra tagliata
a metà in verticale), fatto di immense vetrate: è il Museo Violeta Parra, che, inaugurato
nel 2015, a partire da ottobre sarà il fulcro di almeno trecento iniziative nazionali
organizzate in vista del 4 ottobre 2017, centenario della nascita di colei che il
fratello Nicanor, poeta tra i più grandi, chiama “Viola piadosa, admirable, volcánica”,
nei versi del lungo poema Defensa de Violeta Parra, oggi incisi lungo la
rampa d’ingresso al museo.
Non va dimenticato, però, che in una delle strofe della Difesa (pubblicata
per la prima volta nel 1958, e apparsa in una versione ampliata nel 1969), aggiunte
dopo la morte dell’amatissima sorella, Nicanor la definisce anche “Viola funebris”,
aggettivo che sembra far presente un secondo anniversario, quello della morte di
Violeta, suicida con un colpo di pistola nel febbraio del 1967; tra la venuta al
mondo e la scomparsa di una donna straordinaria corrono dunque solo cinquant’anni,
durante i quali ha preso vita un’opera vastissima che l’ha resa celebre non solo
nel suo paese, ma in tutta l’America latina e in Europa, dove è vissuta per alcuni
anni tra Francia e Svizzera, visitando instancabilmente altre nazioni per portarvi
la sua musica.
È stata davvero lunga la strada percorsa dalla bambina nata in una famiglia
assai povera (dieci figli, una madre sarta; un padre stroncato dalla tubercolosi
e dall’alcolismo), dall’adolescente cresciuta in campagna ed emigrata nei quartieri
popolari di Santiago, dalla giovane donna sposata con un ferroviere comunista e
incapace di trasformarsi in casalinga rassegnata, dalla piccola cantora che
si guadagnava la vita esibendosi per strada e nei bar. E il Museo, insieme alla
Fondazione che porta lo stesso nome, dà conto di questo percorso tumultuoso accostando
immagini e suoni, documenti, oggetti, musica (una sala è occupata da un “bosco sonoro”
dove, appoggiando l’orecchio a tronchi d’albero cavi, si possono ascoltare le canzoni
di Violeta) e infine opere d’arte, ossia i quadri, le ceramiche, le sculture in
filo di rame e soprattutto le stupende arpilleras (grandi arazzi di juta
ricamata) che “la Viola” produceva a getto continuo e che nel 1959 espose a Parigi,
in un padiglione del Louvre.
Se quella di artista visuale è una delle meno note tra le tante identità di
Violeta, più che celebre è quella di musicista, compositrice e cantante, nonché
di folclorista che ha registrato almeno 3000 canti popolari del suo paese, e che
nutriva il sogno di offrire a tutti il frutto del lavoro suo e di altri nell’ormai
leggendaria Carpa de la Reina, un tendone da circo alla periferia di Santiago: un
progetto difficile, osteggiato da molti, che le costò duro lavoro e amare delusioni,
e finì per essere lo scenario del suo congedo definitivo. Ancor meno conosciuta
della Violeta pittrice e ricamatrice è poi, almeno in Europa, l’autrice dei versi
raccolti finalmente in Poesia, un volume di oltre 400 pagine curato da Paula
Miranda, professore presso l’Università Cattolica del Cile e già autrice nel 2013
di un saggio notevole, La poesía de Violeta Parra.
Presentato il 4 ottobre presso il Museo per dare inizio all’anno parriano, il
libro include, oltre ai contributi di grandi poeti e scrittori che la stimarono
e le furono amici, come de Rokha, Arguedas, Rojas, Neruda, i testi delle 118 canzoni
composte da Violeta (tra esse, alcune varianti sconosciute di Gracias a la vida,
la più famosa e la più fraintesa), ma anche molti testi inediti e un’autobiografia
in versi intitolata Decimas, scritta tra il ’54 e il ’58 per incitamento
di Nicanor. Pubblicata due anni dopo la morte di Violeta, Decimas utilizza
un metro arcaico e tipico del folclore, che incatena strofe di dieci versi ottosillabi,
in rima e con l’obbligo di trattare un medesimo argomento per ogni strofa. Un esercizio
complicato, che Violeta praticava con meravigliosa naturalezza, fondendo poesia
popolare e letteratura colta, memoria personale e collettiva, e aprendo così la
strada alle sue creazioni musicali più significative, come le canzoni splendide
e a volte strazianti riunite nel disco Ultimas composiciones (un vero e proprio
congedo, prima del suicidio già altre volte tentato).
Proprio dalle pagine di Decimas, Violeta sembra venirci più che mai incontro:
dotata di innumerevoli talenti e di energia spropositata, orgogliosa, iraconda e
autoritaria, generosa all’estremo; qualcuno, scrive Nicanor, che “non si veste da
pagliaccio, non si compra e non si vende, parla la lingua della terra”. Ma anche
qualcuno che certi settori della società cilena di allora, profondamente classista
e oligarchica, e della sua cultura ufficiale, elitaria e votata al mantenimento
dello status quo, non sapevano né potevano accettare, e non solo per via delle posizioni
politiche di Violeta, espresse in canzoni mai rassegnate che trasudavano indignazione,
dolore, rabbia e ironia. Se per una parte del Cile “la Viola” è stata troppo a lungo
una nemica alla quale negare sostegno e riconoscimento – uno dei primi gesti della
dittatura di Pinochet fu quello di togliere il suo nome a un quartiere popolare
di Santiago –, lo si deve anche al suo rigore, alle sue scelte di vita, al suo essere
incredibilmente in anticipo sul proprio tempo.
Il suo approccio al folclore, per esempio, non era certo quello più diffuso
e ufficialmente accettato, che considerava cultura e usanze del popolo come un pittoresco
cadavere da imbalsamare per garantirne l’incorruttibilità, pronto per essere esibito
in occasione di qualche festa patronale. Invece lei, la Viola, non intendeva semplicemente
“salvare” la musica e la cultura popolare, anche se dedicò tempo ed energia a sottrarre
all’oblio canzoni, leggende, musiche raccolte nei suoi infiniti viaggi attraverso
il Cile; quello che voleva era rivitalizzare e usare materiali e forme del folclore,
come nota Arguedas, “nel modo più lucido e aggressivo”, per creare qualcosa di originale
che parlasse a tutti, uscisse dal ghetto in cui si voleva rinchiuderlo e creasse
contaminazioni continue tra mondo contadino e urbano, tra “alto” e “basso”, tra
vecchio e nuovo, in modo da evitare che ogni diversità venisse cancellata dall’imposizione
di un modello culturale unico.
Il tratto più eversivo di Violeta, la sua provocazione più grande, era però
il suo modo di essere donna: libera, spregiudicata, avventurosa, insofferente di
ogni costrizione – lo testimonia, tra le altre cose, la sua intensa e instabile
vita amorosa, mai sacrificata alla strada che vedeva tracciata davanti a sé –, lontana
dai modelli di femminilità domestica e conciliante proposti/imposti in quell’epoca,
e non solo in America Latina. Sono le donne del popolo, impegnate come sua madre
Clarisa in un lavoro continuo e logorante, pietre angolari di una sopravvivenza
difficile, quelle cui Violeta dà voce e che incarna scegliendo panni modesti, ignorando
la moda, rifiutando il trucco e le apparenze, vivendo in case dal pavimento di terra
battuta, scrivendo canzoni e cantandole, trovando le parole per raccontarsi, ricamando,
modellando ceramiche, trasformando le tradizionali forme espressive femminili in
arte autentica e personale, mai puramente popolare o colta, sempre lontana da ogni
compiacenza o criterio commerciale.
“Uccello in volo che nessuno può fermare”, pronta a correre i rischi che la
sua etica rigorosa, la sua assoluta coerenza e le sue scelte audaci comportavano,
logorata infine dall’enorme stanchezza e dallo sconforto che colgono il combattente
solitario e ostinato (troppo facile ricondurne il suicidio a un amore deluso, al
fallimento della Carpa, alle pressioni dei creditori, piuttosto che a un’ultima
sfida), Violeta Parra è oggi onorata da un paese che l’ha misconosciuta a lungo,
eppure non rischia di trasformarsi in un’immaginetta stereotipata o di lasciarsi
imprigionare nel Museo che giustamente la celebra: la qualità eversiva della sua
opera è ancora così evidente, così palpabile, da non poter essere del tutto metabolizzata
neppure adesso, nel tempo del suo centesimo compleanno.
Questo articolo è apparso su Il manifesto nell’ottobre del 2016