Carlos Fuentes
Sognare il passato, ricordare il futuro
“Mi alzo la mattina presto e
alle sette o allo otto sto già scrivendo. Tra i miei libri, mia moglie, i miei
amici e i miei amori ho motivi sufficienti per continuare a vivere”: queste
parole le ha pronunciate Carlos Fuentes durante la Fiera del libro di Buenos
Aires del 2012, in quella che forse è stata la sua ultima intervista. E
nessuno, tra quanti avevano constatato che la vitalità e l’entusiasmo
dell’instancabile, elegante, mondanissimo scrittore messicano sfuggivano alle
leggi dell’età, avrebbe mai immaginato che il martedì successivo un malore
improvviso (un'emorragia interna provocata da un’ulcera, secondo i giornali
messicani) se lo sarebbe portato via in poche ore, mentre aveva già le valige
pronte per affrontare, insieme alla moglie Silvia Lemus, un altro dei tanti
viaggi che scandivano la sua vita: sei mesi a Londra - dove niente lo distraeva
dalla scrittura - e sei a Città del
Messico, punteggiati da apparizioni nelle dozzine di luoghi in cui lo
invitavano a tenere conferenze, presentare libri, partecipare a convegni.
Un vagabondo cosmopolita, del resto,
Carlos Fuentes lo era stato sin
dall’infanzia, per via di un padre diplomatico ed errante che lo aveva fatto
nascere a Panama nel 1928 e crescere in nazioni diverse, dal Cile all’Ecuador,
dagli Stati Uniti all’Argentina (dove si rifiutò di frequentare il liceo per
protesta contro i programmi reazionari e antisemiti del ministro Zuviría).
Quando la sua famiglia rientrò in Messico, il sedicenne Carlos si ritrovò a
vivere in un paese che conosceva solo per via delle lunghe estati trascorse
presso i nonni: un paese del quale lo
colpirono innanzitutto le peculiarità linguistiche e dove tutto lo divertiva e
lo affascinava, come racconta Elena Poniatowska, che lo conobbe da ragazzina a
una festa da ballo e che ricorda la sua mania di prendere appunti su ogni cosa
.
Da allora, Fuentes non ha fatto che andare e venire tra il Messico e
gli USA, l’Inghilterra, la Svizzera, la Spagna, la Francia, dove fu
ambasciatore nel 1975 per poi rinunciare all’incarico nel 1977, in segno di
protesta per la nomina dell’ex presidente Díaz Ordaz, responsabile del massacro
di Tlatelolco, a primo ambasciatore messicano nella Spagna postfranchista.
Il vero centro della sua esistenza e della sua opera, tuttavia, è
rimasto il Messico, del quale è stato per cinquant’anni una sorta di coscienza
critica e che ha raccontato, rappresentato e tentato di definire attraverso un
ventina di romanzi e diverse raccolte di racconti, oltre a copioni teatrali e
cinematografici (la sua prima moglie era una famosa attrice, e il regista
Buñuel uno dei suoi migliori amici), numerosi saggi e centinaia di articoli non
necessariamente di argomento letterario. La politica, infatti, non smise mai di
appassionarlo, e non si contano le sue energiche prese di posizione: a favore
(almeno all’inizio) di Castro e contro Bush – Contra Bush è appunto il
titolo di un suo saggio del 2004, pubblicato in Italia da Tropea -; a
favore della depenalizzazione delle
droghe e contro il Partido
Revolucionario Institucional al governo per sessant’anni, ma anche contro i
suoi inetti successori e la corruzione che da sempre è tutt’uno con la politica
messicana. Immerso nell’osservazione, nell’analisi, nella spietata e lucida
narrazione del Messico, della sua storia passata come del suo sanguinosissimo
presente, Fuentes non ha mai smesso di essere attento a quanto accade nel
mondo, e proprio della “nuova epoca” in cui tutto va vertiginosamente cambiando
aveva parlato a Buenos Aires, nella sua ultima lectio magistralis. C’è stato perfino chi gli ha rimproverato la
sua ansia di “essere al corrente”, di pronunciarsi su tutto, di commentare
avidamente ogni novità: e la lunga polemica con lo storico Enrique Krauze e con
la sua rivista Letras Libres (erede della celebre Vuelta diretta dal premio
Nobel Octavio Paz, un tempo grande amico
e poi avversario di Fuentes), che ha toccato punte di vera sgradevolezza, è
segnata dall’accusa di essere “troppo poco messicano” e di parlare di un
Messico del tutto inventato.
Ma, com’è ovvio, ogni patria letteraria è una patria inventata, ed è
proprio questa invenzione, sosteneva Fuentes, a svelarci profonde verità,
perché, anche se il romanzo non ci dà risposte (come "non ce ne danno la
politica, la logica, la scienza”) ci consente tuttavia di fare le domande in un
altro modo, “ambiguo, comico, trasgressivo”. Queste domande Fuentes ha saputo porle
magistralmente sin da quando, dopo un esordio in sordina con i racconti di Los días enmascarados, nel 1958 fece
irruzione nella letteratura messicana con il suo primo romanzo, La región más trasparente (diventato in
Italia “L’ombelico del cielo”, e oggi nel catalogo del Saggiatore col titolo di
“La regione più trasparente”), un prodigioso ritratto urbano che ha per
protagonista Città del Messico, quasi un mural - fu Carlos Monsivais a
definirlo così - dove, come in quelli di Rivera o di Siqueiros, sono
contemporaneamente presenti innumerevoli personaggi rappresentati in luoghi e
tempi diversi. Un testo innovatore,
audace, in cui il giovane scrittore giocava con il linguaggio, i temi, la
struttura, dando inizio a una sperimentazione che non sarebbe mai cessata e che
l’avrebbe collocato tra gli autori più importanti del Boom latinoamericano, nonché tra i padri riconosciuti della modernità messicana, insieme a Juan Rulfo e
Octavio Paz.
A La región más transparente
sarebbero seguite altre opere di importanza capitale, continuamente rilette e
raramente superate, come La muerte de
Artemio Cruz (“La morte di Artemio Cruz”, Net 2002), del 1962, che racconta
l’agonia di un ex rivoluzionario imborghesito la cui vita è segnata da mille
tradimenti, ricorrendo a tre voci narranti e a differenti piani temporali: un
romanzo che confermerà Fuentes come narratore potente e maestro del linguaggio,
sottolineandone la costante preoccupazione storica (una Storia che si può
ricreare e ri-immaginare all’infinito, perché l’imperativo è ”sognare il
passato, ricordare il futuro”), la capacità di usare come pochi il flusso di
coscienza e di costruire testi “aperti” dall’impianto complesso.
Aura (sessanta pagine di cui si usa dire che sono
"semplicemente perfette”), Cambio de Piel, il poderoso Terra Nostra, Los años
con Laura Díaz, Diana o la cazadora solitaria (dedicato a Jean Seberg, con cui
aveva avuto una breve e tormentosa relazione) sono solo alcuni dei tanti titoli
che compongono la sua sterminata bibliografia, insieme a saggi di grande
interesse come La nueva novela ispanoamericana
(1969), assai superiore, va detto, al recente e diseguale La gran novela latinoamericana (2011), canone personale ricco di
esclusioni e inclusioni su cui si potrebbe senz'altro discutere. E diventa inevitabile, a questo punto,
sottolineare come una produzione frenetica, inarrestabile e di sovrabbondanza
balzachiana, qual’è quella di Fuentes, possa e debba registrare alti e bassi
notevoli, insieme a una indubbia e lenta involuzione che negli ultimi anni ha
comportato il riutilizzo (e non la reinvenzione) di temi già ampiamente sfruttati,
una scrittura più stanca e prevedibile, uno stile meno luminoso e originale. Ma
niente, né ora né in futuro, toglierà a Carlos Fuentes il ruolo che si è conquistato nella
letteratura messicana e mondiale grazie a un pugno di opere memorabili che hanno fatto da spartiacque tra due
epoche, mantenendo sempre l’attualità dell’autentica opera d’arte.
Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2012