sabato 7 giugno 2014

Anniversari e addii: Carlos Fuentes


Carlos Fuentes


Sognare il passato, ricordare il futuro

“Mi alzo la mattina presto e alle sette o allo otto sto già scrivendo. Tra i miei libri, mia moglie, i miei amici e i miei amori ho motivi sufficienti per continuare a vivere”: queste parole le ha pronunciate Carlos Fuentes durante la Fiera del libro di Buenos Aires del 2012, in quella che forse è stata la sua ultima intervista. E nessuno, tra quanti avevano constatato che la vitalità e l’entusiasmo dell’instancabile, elegante, mondanissimo scrittore messicano sfuggivano alle leggi dell’età, avrebbe mai immaginato che il martedì successivo un malore improvviso (un'emorragia interna provocata da un’ulcera, secondo i giornali messicani) se lo sarebbe portato via in poche ore, mentre aveva già le valige pronte per affrontare, insieme alla moglie Silvia Lemus, un altro dei tanti viaggi che scandivano la sua vita: sei mesi a Londra - dove niente lo distraeva dalla scrittura   - e sei a Città del Messico, punteggiati da apparizioni nelle dozzine di luoghi in cui lo invitavano a tenere conferenze, presentare libri, partecipare a convegni.
Un vagabondo cosmopolita, del resto,  Carlos Fuentes lo era  stato sin dall’infanzia, per via di un padre diplomatico ed errante che lo aveva fatto nascere a Panama nel 1928 e crescere in nazioni diverse, dal Cile all’Ecuador, dagli Stati Uniti all’Argentina (dove si rifiutò di frequentare il liceo per protesta contro i programmi reazionari e antisemiti del ministro Zuviría). Quando la sua famiglia rientrò in Messico, il sedicenne Carlos si ritrovò a vivere in un paese che conosceva solo per via delle lunghe estati trascorse presso i nonni: un paese del quale  lo colpirono innanzitutto le peculiarità linguistiche e dove tutto lo divertiva e lo affascinava, come racconta Elena Poniatowska, che lo conobbe da ragazzina a una festa da ballo e che ricorda la sua mania di prendere appunti su ogni cosa .
Da allora, Fuentes non ha fatto che andare e venire tra il Messico e gli USA, l’Inghilterra, la Svizzera, la Spagna, la Francia, dove fu ambasciatore nel 1975 per poi rinunciare all’incarico nel 1977, in segno di protesta per la nomina dell’ex presidente Díaz Ordaz, responsabile del massacro di Tlatelolco, a primo ambasciatore messicano nella Spagna postfranchista.
Il vero centro della sua esistenza e della sua opera, tuttavia, è rimasto il Messico, del quale è stato per cinquant’anni una sorta di coscienza critica e che ha raccontato, rappresentato e tentato di definire attraverso un ventina di romanzi e diverse raccolte di racconti, oltre a copioni teatrali e cinematografici (la sua prima moglie era una famosa attrice, e il regista Buñuel uno dei suoi migliori amici), numerosi saggi e centinaia di articoli non necessariamente di argomento letterario. La politica, infatti, non smise mai di appassionarlo, e non si contano le sue energiche prese di posizione: a favore (almeno all’inizio) di Castro e contro Bush – Contra Bush  è appunto il titolo di un suo saggio del 2004, pubblicato in Italia da Tropea -; a favore  della depenalizzazione delle droghe e contro il  Partido Revolucionario Institucional al governo per sessant’anni, ma anche contro i suoi inetti successori e la corruzione che da sempre è tutt’uno con la politica messicana. Immerso nell’osservazione, nell’analisi, nella spietata e lucida narrazione del Messico, della sua storia passata come del suo sanguinosissimo presente, Fuentes non ha mai smesso di essere attento a quanto accade nel mondo, e proprio della “nuova epoca” in cui tutto va vertiginosamente cambiando aveva parlato a Buenos Aires, nella sua ultima lectio magistralis.  C’è stato perfino chi gli ha rimproverato la sua ansia di “essere al corrente”, di pronunciarsi su tutto, di commentare avidamente ogni novità: e la lunga polemica con lo storico Enrique Krauze e con la sua rivista Letras Libres (erede della celebre Vuelta diretta dal premio Nobel  Octavio Paz, un tempo grande amico e poi avversario di Fuentes), che ha toccato punte di vera sgradevolezza, è segnata dall’accusa di essere “troppo poco messicano” e di parlare di un Messico del tutto inventato.
Ma, com’è ovvio, ogni patria letteraria è una patria inventata, ed è proprio questa invenzione, sosteneva Fuentes, a svelarci profonde verità, perché, anche se il romanzo non ci dà risposte (come "non ce ne danno la politica, la logica, la scienza”) ci consente tuttavia di fare le domande in un altro modo, “ambiguo, comico, trasgressivo”. Queste domande Fuentes ha saputo porle magistralmente sin da quando, dopo un esordio in sordina con i racconti di Los días enmascarados, nel 1958 fece irruzione nella letteratura messicana con il suo primo romanzo, La región más trasparente (diventato in Italia “L’ombelico del cielo”, e oggi nel catalogo del Saggiatore col titolo di “La regione più trasparente”), un prodigioso ritratto urbano che ha per protagonista Città del Messico, quasi un mural - fu Carlos Monsivais a definirlo così - dove, come in quelli di Rivera o di Siqueiros, sono contemporaneamente presenti innumerevoli personaggi rappresentati in luoghi e tempi diversi. Un testo innovatore, audace, in cui il giovane scrittore giocava con il linguaggio, i temi, la struttura, dando inizio a una sperimentazione che non sarebbe mai cessata e che l’avrebbe collocato tra gli autori più importanti del Boom latinoamericano, nonché tra i padri riconosciuti della modernità messicana, insieme a Juan Rulfo e Octavio Paz.
A La región más transparente sarebbero seguite altre opere di importanza capitale, continuamente rilette e raramente superate, come La muerte de Artemio Cruz (“La morte di Artemio Cruz”, Net 2002), del 1962, che racconta l’agonia di un ex rivoluzionario imborghesito la cui vita è segnata da mille tradimenti, ricorrendo a tre voci narranti e a differenti piani temporali: un romanzo che confermerà Fuentes come narratore potente e maestro del linguaggio, sottolineandone la costante preoccupazione storica (una Storia che si può ricreare e ri-immaginare all’infinito, perché l’imperativo è ”sognare il passato, ricordare il futuro”), la capacità di usare come pochi il flusso di coscienza e di costruire testi “aperti” dall’impianto complesso. 
Aura  (sessanta pagine di cui si usa dire che sono "semplicemente perfette”),  Cambio de Piel, il poderoso Terra Nostra,  Los años con Laura DíazDiana o la cazadora solitaria (dedicato a Jean Seberg, con cui aveva avuto una breve e tormentosa relazione) sono solo alcuni dei tanti titoli che compongono la sua sterminata bibliografia, insieme a saggi di grande interesse come La nueva novela ispanoamericana (1969), assai superiore, va detto, al recente e diseguale La gran novela latinoamericana (2011), canone personale ricco di esclusioni e inclusioni su cui si potrebbe senz'altro discutere. E diventa inevitabile, a questo punto, sottolineare come una produzione frenetica, inarrestabile e di sovrabbondanza balzachiana, qual’è quella di Fuentes, possa e debba registrare alti e bassi notevoli, insieme a una indubbia e lenta involuzione che negli ultimi anni ha comportato il riutilizzo (e non la reinvenzione) di temi già ampiamente sfruttati, una scrittura più stanca e prevedibile, uno stile meno luminoso e originale. Ma niente, né ora né in futuro, toglierà a Carlos Fuentes  il ruolo che si è conquistato nella letteratura messicana e mondiale grazie a un pugno di opere memorabili  che hanno fatto da spartiacque tra due epoche, mantenendo sempre l’attualità dell’autentica opera d’arte.  

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel maggio del 2012