Martín Caparrós |
Imponente, cordiale e con ottocenteschi baffi a manubrio che sono quasi un marchio
di fabbrica, Martín Caparrós è un intellettuale a tutto
tondo, un romanziere-giornalista-saggista-storico nato a Buenos Aires nel 1957,
notissimo nel suo paese per via di una attività instancabile, di una vis polemica
mai fine a sé stessa e che forse sarebbe più esatto chiamare passione, e della capacità
di comporre, libro dopo libro, un ritratto del proprio paese allo stesso tempo attendibile
e privo di compiacenza. Un paese in cui ha debuttato giovanissimo nel giornalismo,
lavorando a Noticias insieme a Rodolfo Walsh, che ha dovuto lasciare durante
gli anni della dittatura per trasferirsi prima in Francia (dove si è laureato in
storia alla Sorbona) e poi in Spagna, e dove è tornato definitivamente da oltre
un ventennio, portando con sé un notevole e multiforme bagaglio di esperienze editoriali.
Dei suoi nove romanzi, solo uno è apparso in Italia dopo aver vinto il Premio
Planeta (Il ladro del sorriso, Ponte alle Grazie, 2006), mentre il penultimo
(A quien corresponda, Anagrama, 2008), che coniuga passato e presente attraverso
la storia di un ex militante alle prese col ricordo della sua compagna uccisa dalla
dittatura – ma soprattutto con l’uso che della memoria di quegli anni si fa nell’Argentina
di oggi –, è stato acquistato da un editore italiano, anche se la data di pubblicazione
è ancora incerta.
A essere del
tutto sconosciuta nel nostro paese, invece, è la sua abbondante e notevole produzione
di crónicas (genere del quale viene considerato un maestro), che include
opere come La voluntad, monumentale storia della militanza argentina tra
il ’66 e il ’78 scritta insieme a Eduardo Anguita, o El Interior,
sull’Argentina provinciale e profonda, o ancora Amor y Anarquía. La vida
urgente di Soledad Rosas, storia di una giovane argentina trapiantata in Italia
che, arrestata per un attentato contro la famigerata TAV, finì per suicidarsi prima
che la sua innocenza e quella del suo compagno (anche lui suicida) venisse riconosciuta.
Ora, però, le Edizioni Ambiente hanno provveduto a colmare la lacuna pubblicando,
nell’ottima traduzione di Maddalena Cazzaniga, Non è un cambio di stagione:
una buona occasione per conoscere da vicino un intellettuale del tipo al quale non
siamo più abituati, e cioè un portatore sano di coscienza critica, uno che sistematicamente
“disturba il manovratore”, un seminatore di dubbi che tiene più alle domande che
alle risposte, e che, qualunque sia l’argomento in ballo, è sempre pronto a spiazzare
l’interlocutore suggerendo un altro punto di vista e invitando a praticare stimolanti
“distinguo”. È inevitabile, insomma, che libri come i suoi suscitino discussioni
e polemiche (anche se Caparrós sostiene di propendere per le prime e non per le
seconde), come è successo per Argentinismos (Editorial Planeta, 2011), una
sorta di denso pamphlet sulla situazione politica argentina, sulla necessità di
abbandonare l’uso di un termine svuotato di senso come “peronismo” e soprattutto
sul perché non è possibile dirsi kirchneristi e avallare il trionfalismo di un governo
che, dice l’autore, “sembra avere come motto ‘prima di noi il diluvio’, che pratica
una specie di impossibile epica possibilista o di possibilismo dell’epica e che,
pur avendo fatto alcune cose buone (per esempio la legge sui media), non ha modificato
di molto la situazione di larghi strati della popolazione, poveri proprio come lo
erano nel 1995, in pieno menemismo”.
Anche questo Non è un cambio di stagione non ha mancato (e non mancherà,
qui da noi come altrove) di sembrare una provocazione, per quanti credono ciecamente
nella rovina prossima ventura del pianeta e nella intangibilità del dettato ambientalista.
Ma di quale ambientalismo si sta parlando, gestito e governato da chi, destinato
a risolvere quali problemi, pensato per quali soggetti? Non certo, sostiene Caparrós,
quello del protocollo di Kyoto, che prevede la possibilità di pagare per potersi
concedere un sovrappiù di emissioni nocive, o quello degli ecololò dei paesi
industrializzati, i cui consumi producono il 50% dell’inquinamento mentre il resto
del mondo è fermo al 7%, o quello fittizio e ipocrita delle grandi industrie e dei
governi che, cavalcando l’onda del timore per il cambiamento climatico, tentano
di “ritardare l’industrializzazione delle nuove potenze emergenti e, così, mantenere
l’egemonia attualmente esistente per decenni ancora; cambiare il modello energetico
globale per modificare alcune relazioni geopolitiche e per ottenere che nuovi attori
diventino forti in uno dei maggiori mercati mondiali; fare soldi col mercato del
carbonio”.
Raccontando le storie di persone incontrate nel corso di un lungo viaggio in
luoghi lontani e diversi (dall’Amazzonia al Niger, dal Marocco alle Filippine, dalle
Hawaii a New Orleans) e illustrando il modo in cui il cambiamento climatico ha influito
sulle loro vite o le ha radicalmente cambiate, Caparrós compie con grande abilità
un duplice esercizio: da una parte consente al lettore di immergersi in ambienti
e situazioni e di osservare a distanza ravvicinatissima mutamenti piccoli e grandi;
dall’altra, però, conserva il distacco indispensabile alla riflessione, al ragionamento,
all’analisi. La realtà va pensata, insomma, e non solo raccontata, in modo che la
testimonianza si trasformi in uno slancio verso il nuovo. “Ecco perché il mio libro
è in parte saggio e in parte crónica, genere che oggi in America Latina va fin troppo di moda,
e sul quale si tengono convegni e incontri. Comincio a pensare che la crónica non sia abbastanza, che rischi di risultare
troppo semplice, di badare più alla bella forma che al contenuto, mentre il saggio
“puro”, d’altra parte, è spesso noioso e troppo specialistico”.
Ed è così che, di storia in storia, ma senza dimenticare dati e ragionamenti,
Caparrós cerca di metterci la pulce nell’orecchio e, con una scrittura elegante
e letteraria, ma con l’incisività del giornalismo migliore, mette insieme i pezzi
del suo “iperviaggio” (e del nostro), incoraggiandoci soprattutto a uno sforzo di
immaginazione che possa conciliare la salvezza dell’ambiente con il diritto di milioni
di uomini a non morire di fame e a vivere una vita dignitosa. Il che implica, ovviamente,
riconoscere che il mantenimento dello status quo è “non solo impossibile, ma osceno”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel settembre 2011