sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Martín Caparrós



Martín Caparrós




Non è un cambio di stagione

Imponente, cordiale e con ottocenteschi baffi a manubrio che sono quasi un marchio di fabbrica, Martín Caparrós è un intellettuale a tutto tondo, un romanziere-giornalista-saggista-storico nato a Buenos Aires nel 1957, notissimo nel suo paese per via di una attività instancabile, di una vis polemica mai fine a sé stessa e che forse sarebbe più esatto chiamare passione, e della capacità di comporre, libro dopo libro, un ritratto del proprio paese allo stesso tempo attendibile e privo di compiacenza. Un paese in cui ha debuttato giovanissimo nel giornalismo, lavorando a Noticias insieme a Rodolfo Walsh, che ha dovuto lasciare durante gli anni della dittatura per trasferirsi prima in Francia (dove si è laureato in storia alla Sorbona) e poi in Spagna, e dove è tornato definitivamente da oltre un ventennio, portando con sé un notevole e multiforme bagaglio di esperienze editoriali.

Dei suoi nove romanzi, solo uno è apparso in Italia dopo aver vinto il Premio Planeta (Il ladro del sorriso, Ponte alle Grazie, 2006), mentre il penultimo (A quien corresponda, Anagrama, 2008), che coniuga passato e presente attraverso la storia di un ex militante alle prese col ricordo della sua compagna uccisa dalla dittatura – ma soprattutto con l’uso che della memoria di quegli anni si fa nell’Argentina di oggi –, è stato acquistato da un editore italiano, anche se la data di pubblicazione è ancora incerta.

A essere del tutto sconosciuta nel nostro paese, invece, è la sua abbondante e notevole produzione di crónicas (genere del quale viene considerato un maestro), che include opere come La voluntad, monumentale storia della militanza argentina tra il ’66 e il ’78 scritta insieme a Eduardo Anguita, o El Interior, sull’Argentina provinciale e profonda, o ancora Amor y Anarquía. La vida urgente di Soledad Rosas, storia di una giovane argentina trapiantata in Italia che, arrestata per un attentato contro la famigerata TAV, finì per suicidarsi prima che la sua innocenza e quella del suo compagno (anche lui suicida) venisse riconosciuta.

Ora, però, le Edizioni Ambiente hanno provveduto a colmare la lacuna pubblicando, nell’ottima traduzione di Maddalena Cazzaniga, Non è un cambio di stagione: una buona occasione per conoscere da vicino un intellettuale del tipo al quale non siamo più abituati, e cioè un portatore sano di coscienza critica, uno che sistematicamente “disturba il manovratore”, un seminatore di dubbi che tiene più alle domande che alle risposte, e che, qualunque sia l’argomento in ballo, è sempre pronto a spiazzare l’interlocutore suggerendo un altro punto di vista e invitando a praticare stimolanti “distinguo”. È inevitabile, insomma, che libri come i suoi suscitino discussioni e polemiche (anche se Caparrós sostiene di propendere per le prime e non per le seconde), come è successo per Argentinismos (Editorial Planeta, 2011), una sorta di denso pamphlet sulla situazione politica argentina, sulla necessità di abbandonare l’uso di un termine svuotato di senso come “peronismo” e soprattutto sul perché non è possibile dirsi kirchneristi e avallare il trionfalismo di un governo che, dice l’autore, “sembra avere come motto ‘prima di noi il diluvio’, che pratica una specie di impossibile epica possibilista o di possibilismo dell’epica e che, pur avendo fatto alcune cose buone (per esempio la legge sui media), non ha modificato di molto la situazione di larghi strati della popolazione, poveri proprio come lo erano nel 1995, in pieno menemismo”.

Anche questo Non è un cambio di stagione non ha mancato (e non mancherà, qui da noi come altrove) di sembrare una provocazione, per quanti credono ciecamente nella rovina prossima ventura del pianeta e nella intangibilità del dettato ambientalista. Ma di quale ambientalismo si sta parlando, gestito e governato da chi, destinato a risolvere quali problemi, pensato per quali soggetti? Non certo, sostiene Caparrós, quello del protocollo di Kyoto, che prevede la possibilità di pagare per potersi concedere un sovrappiù di emissioni nocive, o quello degli ecololò dei paesi industrializzati, i cui consumi producono il 50% dell’inquinamento mentre il resto del mondo è fermo al 7%, o quello fittizio e ipocrita delle grandi industrie e dei governi che, cavalcando l’onda del timore per il cambiamento climatico, tentano di “ritardare l’industrializzazione delle nuove potenze emergenti e, così, mantenere l’egemonia attualmente esistente per decenni ancora; cambiare il modello energetico globale per modificare alcune relazioni geopolitiche e per ottenere che nuovi attori diventino forti in uno dei maggiori mercati mondiali; fare soldi col mercato del carbonio”.

Raccontando le storie di persone incontrate nel corso di un lungo viaggio in luoghi lontani e diversi (dall’Amazzonia al Niger, dal Marocco alle Filippine, dalle Hawaii a New Orleans) e illustrando il modo in cui il cambiamento climatico ha influito sulle loro vite o le ha radicalmente cambiate, Caparrós compie con grande abilità un duplice esercizio: da una parte consente al lettore di immergersi in ambienti e situazioni e di osservare a distanza ravvicinatissima mutamenti piccoli e grandi; dall’altra, però, conserva il distacco indispensabile alla riflessione, al ragionamento, all’analisi. La realtà va pensata, insomma, e non solo raccontata, in modo che la testimonianza si trasformi in uno slancio verso il nuovo. “Ecco perché il mio libro è in parte saggio e in parte crónica, genere che oggi in America Latina va fin troppo di moda, e sul quale si tengono convegni e incontri. Comincio a pensare che la crónica non sia abbastanza, che rischi di risultare troppo semplice, di badare più alla bella forma che al contenuto, mentre il saggio “puro”, d’altra parte, è spesso noioso e troppo specialistico”.

Ed è così che, di storia in storia, ma senza dimenticare dati e ragionamenti, Caparrós cerca di metterci la pulce nell’orecchio e, con una scrittura elegante e letteraria, ma con l’incisività del giornalismo migliore, mette insieme i pezzi del suo “iperviaggio” (e del nostro), incoraggiandoci soprattutto a uno sforzo di immaginazione che possa conciliare la salvezza dell’ambiente con il diritto di milioni di uomini a non morire di fame e a vivere una vita dignitosa. Il che implica, ovviamente, riconoscere che il mantenimento dello status quo è “non solo impossibile, ma osceno”.

 

 Questo articolo è uscito su Il manifesto nel settembre 2011