sabato 7 giugno 2014

Anniversari e addii: Mercè Rodoreda



Mercè Rodoreda

I cento anni di Mercè

I lettori italiani la conoscono poco, anzi pochissimo, perché la maggior parte dei suoi libri, editi a suo tempo da Mondadori e Giunti, e soprattutto da La Tartaruga e Bollati Boringhieri, sono ormai introvabili e non hanno mai raggiunto un pubblico realmente vasto, restando nascosti tra le pieghe di una editoria di nicchia, nonostante (o forse a causa di) un alto livello letterario.Certo Mercè Rodoreda, nata a Barcellona nel 1908 e scomparsa nel 1983 non è una scrittrice "facilmente consumabile", ma chiunque abbia letto “Via delle camelie” (La Tartaruga 1991), “La morte e la primavera” (Sellerio 2005) o “Il giardino sul mare” (La Tartaruga 1990) non avrà dimenticato la sua straordinaria, quasi provocatoria modernità e la scrittura avvolgente e sempre rinnovata che passa dal realismo “parlato” del suo romanzo più noto, La piazza del Diamante, che le diede la fama, alla molteplicità di voci e alla raffinata rielaborazione degli ingredienti tipici del feuilleton, inseriti nell'audace struttura di “Lo specchio rotto” (Bollati Boringhieri 1992), forse la sua opera più ambiziosa e complessa.
Una nuova occasione di avvicinarsi a un'autrice così fuori del comune anche in un panorama ricco e vitale come quello della letteratura catalana contemporanea, ce la offre adesso il centenario della nascita che, celebrato in Spagna con mille iniziative (spettacoli teatrali, letture pubbliche, mostre, pellegrinaggi nei luoghi della sua vita), prevede anche la contemporanea pubblicazione in vari paesi di “La Piazza del Diamante”, definito da García Márquez “il più bel romanzo pubblicato in Spagna dopo la guerra civile”. A riproporlo in Italia è La Nuova Frontiera, che ha affidato a Giuseppe Tavani la traduzione (la terza nella nostra lingua, dopo quelle di Giuseppe Cintioli e di Anna Maria Saludes, che moltissimo ha fatto per diffondere l'opera della scrittrice catalana in Italia), corredandola di una nota di Sandra Cisneros, arrivata alla lettura della Rodoreda grazie alla duplice «raccomandazione» di García Márquez e di un posteggiatore d'auto messicano dagli ottimi gusti letterari.
Come molti altri, anche la Cisneros ha cercato di ritrovare nella Barcellona di oggi le tracce dell'autrice, cresciuta nel quartiere San Gervasi in una famiglia borghese che adorava il teatro e la musica e che la ritirò assai presto dalla scuola perché stesse vicina al nonno ammalato. E, come hanno fatto  i lettori barcellonesi nel corso di visite accompagnate da letture ad alta voce, anche la scrittrice messicana ha rintracciato uno dopo l'altro i luoghi narrati nei romanzi della Rodoreda, trovandoli inesorabilmente stravolti dal tempo.
Il modo migliore di compiere un simile percorso resta perciò quello di seguire pagina dopo pagina i passi di Natalia, protagonista della Piazza del Diamante, che il fidanzato e poi marito Quimet chiama Colometa (ossia Colombetta). È attraverso i suoi occhi e la sua voce che l'autrice ci presenta il barrio de Gràcia e le strade della vecchia Barcellona tra la fine degli anni '20 e l'inizio dei '50: una città dapprima gioiosa in cui Colombetta, tutta vestita di bianco e con scarpe bianche «come un sorso di latte», danza nella piazza sotto le ghirlande di carta, ma che poi si fa ben più cupa, per arrivare al grigio, alla fame e alla desolazione del dopoguerra.
“La Piazza del Diamante”, romanzo in cui la Rodoreda si cimenta in un abilissimo uso del flusso di coscienza, ruota dunque attorno a un grande ritratto al femminile, quello di una ragazza del popolo come tante, modesta commessa di pasticceria pronta ad accogliere e quasi a subire l'amore prepotente del suo Quimet e a trasformarsi prima in una moglie sottomessa che lavora come domestica in casa di signori, e poi in una madre travolta da una guerra che la priva di tutto, inghiottendo il suo uomo, gli amici, ogni più piccola speranza.
Grazie a lei, Colombetta, penetriamo in una città devastata e nel livido silenzio della posguerra spagnola, alla quale la Rodoreda scampò rifugiandosi in Francia con altri intellettuali repubblicani (tra i quali Armand Obiols, cui si unì dopo aver lasciato il marito-zio, fratello maggiore della madre), ma solo per vivere nella desolazione, incapace per lungo tempo di scrivere perché il dolorosissimo esilio, il rapporto difficile con il pavido e amato Obiols, la miseria, la lontananza dalla propria lingua ne avevano fatto “una superstite”. Le lettere all'amica Anna Murià (raccolte in “Un vestito nero con paillettes”, Rosellina Archinto 1992) testimoniano di una disperazione che molti anni dopo si trasformerà nel rifiuto di ogni contatto con quanti le ricordano quella vita e quei tempi. Finché, a Ginevra, nascono nel 1958 i Vint-i-dos contes 
(“Colpo di luna”, Bollati Boringhieri 1993), che preludono a “La Piazza del Diamante”, scritto nel '62 e tradotto quasi subito in tutta Europa. 
Come la protagonista del suo romanzo, Mercè Rodoreda ce l'ha dunque fatta. Se Colometa, pronta a uccidersi insieme ai suoi bambini ridotti pelle e ossa, viene salvata infine da un incontro insperato, a salvare Mercè è il rinnovato incontro con la scrittura. Quando rientra in Spagna, nei primi anni '70, è ormai famosa e le sue opere più importanti sono state scritte. Si ritira in un paesetto sul mare, Romanyà de la Selva, dove scriverà ancora, ma soprattutto si dedicherà a quello che più la appassiona,   il suo giardino. Colometa è lontana eppure è sempre lì, come gli altri suoi personaggi femminili, le sue protagoniste fragili ma decise a sopravvivere, seduttive e tradite, lasciate perpetuamente sole da uomini deboli e ambigui che le intrappolano in relazioni senza uscita. Uomini del tutto innecessari, ma così sfuggenti da farsi credere indispensabili. E dietro di loro, dietro l'infinito passo a due di coppie che sanno solo rendersi infelici, la Catalogna e Barcellona a fare da sfondo, protagoniste quanto e più dei personaggi disegnati con tale penetrazione e acume da far definire la loro creatrice una Virginia Woolf mediterranea. Ma, a differenza di Virginia, Mercè poteva dire di se stessa: «Ho sempre vissuto pericolosamente», scommettendo senza esitazioni sulla realtà, sulla politica e sull'amore.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel novembre 2008