Una quieta introversione
“Non credo esista un modello generazionale che contenga i giovani scrittori
latinoamericani. È un’etichetta editoriale o mediatica. Ma credo che questo sia
un momento in cui esiste una molteplicità di voci, con una produzione abbastanza
prolifica, in cui non si condividono né estetiche né ideologie né programmi letterari
di nessun tipo”. Ecco come risponde Iosi Havilio, scrittore argentino nato nel 1974,
a chi gli chiede cosa abbiano in comune gli autori che appartengono alla nuova Generación Latinoamerica. E non potrebbe avere più ragione: a connotare i giovani in questione è infatti
l’eterogeneità delle scritture, dei temi e dei punti di riferimento, insieme alla
decisione di affermare la propria singolarità e al rifiuto di qualsiasi categorizzazione
puramente anagrafica. Come e più degli altri, Havilio, che con due soli romanzi
ha conquistato critici severi come Beatriz Sarlo e scrittori come Fogwill ed è stato
prontamente tradotto in vari paesi, sfugge a ogni tentativo di classificazione e
si propone immediatamente come autore maturo e senza incertezze grazie a un’opera
“esteticamente interessante” e di una “quieta introversione” (così la definisce
la Sarlo), lontana dalla pura e semplice correttezza tecnica garantita dalle scuole
e dai laboratori di scrittura, in Argentina ancor più numerosi che da noi.
Open Door, il suo primo romanzo, appare oggi in italiano
grazie a Caravan Edizioni, nella bella traduzione di Vincenzo Barca, che rende piena
giustizia a una prosa sicura, netta e apparentemente spoglia in cui si nascondono,
però, una quantità di dettagli minuti. È dalla loro somma che nasce la storia costruita
da Havilio intorno a un personaggio femminile senza nome e senza qualità, una veterinaria
mancata che, dopo il breve incontro con una partner occasionale di cui non arriva
a sapere quasi nulla – e che subito sparisce, forse suicida –, finisce per arenarsi
in una sorta di villaggio fantasma, vicino un insolito manicomio chiamato Open Door, che esiste davvero nelle campagne
attorno a Buenos Aires e, fondato nel 1900 da Domingo Cabred, per molto tempo è
stato una comunità autosufficiente dove i pazienti potevano lavorare e convivere
con la loro malattia.
In cerca di una pace che la assolva dal compito di badare a se stessa, completamente
abbandonata al caso, a tutte le droghe su cui riesce a mettere le mani e alla passione
amorosa per una ragazzina imprevedibile, la protagonista e il suo trasferimento
quasi casuale dal troppo “pieno” della metropoli al vuoto del mondo rurale, il suo
lasciarsi vivere e maneggiare, le visite all’obitorio per identificare cadaveri
che non sono mai quello dell’amica scomparsa, il sesso frenetico che pratica con
la sua piccola odiosa innamorata, sono esposti con una spassionata precisione che
fa di Open Door un romanzo di un realismo e un’oggettività del tutto ingannevoli.
Dietro la minuziosa descrittività, dietro la fredda superficie su cui vengono
incise nitidamente scene erotiche o domestiche, campi verdi, interni malinconici,
stazioncine in cui i treni non si fermano più, facce grottesche, matti in transito,
corpi che continuamente si toccano e si allacciano, qualcosa si affaccia e subito
scompare, come una parola che continua a sfuggirci. Perché Open Door potrebbe
essere, alla fine, la rappresentazione stilizzata di un viaggio iniziatico tutto
interiore, oppure lo specchio di un’assenza cui non si può mettere rimedio, di misteri
che non si risolvono mai, di un vuoto che non è possibile riempire e che sembra
corrispondere agli spazi immensi, indifferenti e desolati della campagna assopita.
Il sospetto che ogni pagina, ogni scena, ogni immagine significhino “qualcos’altro”
(un sospetto che inquieta e turba, e che rappresenta la vera forza del romanzo)
assale di continuo il lettore; ma ogni sforzo di decifrazione è inutile, se non
assurdo: e a vanificarlo del tutto c’è quel “Mi sento felice” cui la protagonista
approda nell’ultima riga e dietro il quale si nasconde.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel gennaio del 2012