sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Lina Meruane


Lina Meruane




Lo schermo buio della cecità 

È curioso che nella delegazione cilena invitata al Salone del Libro di Torino del 2013 siano così poco rappresentate le nuove leve, ovvero gli scrittori nati negli ultimi anni della dittatura o dopo la sua fine: eppure è proprio a loro, non ci sono dubbi, che si deve la attuale ed eterogenea vivacità del panorama letterario cileno. Molti non sono ancora noti al pubblico italiano e forse non lo saranno mai, anche se alcuni devono ancora crescere e altri sono da tempo “diventati grandi”, come Carlos Labbé, Alvaro Bisama, Rafael Gumucio, Andrea Jeftanovic, Claudia Apablaza, María José Viera-Gallo; altri ancora sono apparsi o stanno per apparire in italiano, come Alejandro Zambra che, già edito da Neri Pozza (Bonsai, 2007), oggi passa a Mondadori con un bel romanzo di squisita brevità, Modi di tornare a casa, che intreccia sussulti e scosse del terremoto recente a una memoria inizialmente criptica e allusiva, e poi sempre più nitida, degli anni della dittatura, o come Lina Meruane, ormai da molti anni residente a New York dove insegna all’Università, e ora proposta da La Nuova Frontiera nella traduzione di Luca Mariotti.

Sia Zambra che Meruane, insieme a Viera Gallo, costituiscono la sparuta pattuglia degli autori cileni fra i trenta e i quaranta presenti al Salone e parteciperanno a più di un dibattito, compreso quello di domenica pomeriggio sulla necessità di ridefinirsi, che dovrebbe accompagnare chi si trova a “Scrivere dopo Bolaño”. C’è da credere che entrambi avranno molte cose da dire, se non altro perché, mentre alcuni tra i più giovani tendono a naufragare nella “impossibilità di essere Bolaño” o nell’ansia di essere più bolañista di lui, Zambra e Meruane sono fra coloro che si sono sin dall’inizio sottratti alla sua influenza e che hanno trovato una propria voce. La più singolare e riconoscibile è forse quella della Meruane, che dopo aver esordito nel 1998 con un libro di racconti, Las Infantas, appare oggi come una delle migliore autrici di lingua spagnola della sua generazione grazie alla forza e alla originalità del suo quarto e ultimo romanzo, Sangue negli occhi (pag. 149), che nasce da una esperienza reale e assegna al personaggio principale il vero nome dell’autrice, affrettandosi però a dichiararlo falso e a smentire l’elemento autobiografico, e costringendo così il lettore a ricredersi di continuo.

Procedendo dalle frasi interrotte e spezzate delle prime pagine verso un labirinto di immagini così rapide e incisive da risultare quasi brutali, questa narrazione sulla improvvisa cecità di una giovane donna sceglie una chiave più che convincente per avvicinarsi a un argomento che rimanda a infinite mitologie letterarie, qui volutamente ignorate o appena sfiorate; la Meruane opta infatti per raccontarci il buio attraverso la terribile fisicità dei colpi, degli odori, delle voci inflitti al corpo da persone, oggetti ed edifici improvvisamente ostili, collocati in spazi disorientanti e nemici.

Oltre lo schermo nero che oscura la vista, tuttavia, si disegnano nitidissimi le strade di New York, i corridoi dell’ospedale, la desolazione urbana di una Santiago cupa e inquinata, segnata dai proiettili del golpe (tracce del passano che i “vedenti” non scorgono più), l’appartamento dove a un tratto ogni cosa è al posto sbagliato: il mondo continua a esistere e a mutare nella mente della protagonista, l’unico luogo in cui lei possa ancora vedere e in certo senso “scrivere”, e insieme a esso mutano i rapporti, crescono la rabbia e il risentimento, si esaspera il gioco di potere tra sano e ammalato, tra medico e paziente. Il “sangue negli occhi”, che non è solo la manifestazione della malattia, ma anche la metafora terribile della rabbia e del risentimento, si trasforma via via in erotismo divorante, nella voglia di regolare vecchi conti con l’infanzia finalmente perduta e mai davvero decifrata, con l’insufficienza dell’amore materno o con l’inesauribile devozione di un amante, e infine con una vocazione (la scrittura) che si presume spazzata via dalla perdita della vista.

E alla fine di questa storia crudele, essenziale, magistralmente scritta, non si può fare a meno di pensare che mai uno scritto sulla cecità è stato così compiutamente “visivo”, e di chiedersi cos’è che vediamo davvero, cosa significa realmente vedere e se non abbiamo tutti bisogno di un occhio nuovo, dell’occhio “fresco” e vivo, l’occhio di ricambio cui la Lina del romanzo dà avidamente la caccia, come un animale in cerca della preda che la farà sopravvivere.

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2013