Un classico segreto
Appena uscito per le edizioni Scheiwiller e affidato alla cura di Massimo Rizzante,
cui si devono tanto la traduzione quanto il saggio introduttivo, Il ritorno di
Hartz e altre poesie (pag. 208) è, per i lettori italiani, la prima occasione
di confrontarsi con l’opera di Osvaldo Lamborghini, scrittore argentino di enorme
importanza che da noi, tuttavia, quasi nessuno conosce. Un’ignoranza, scrive Rizzante,
della quale non dobbiamo sentirci colpevoli, perché “Lamborghini è un maestro, anzi
un classico segreto, anche in patria”. Il che vale indubbiamente per quel pubblico
che, in Argentina come dovunque, sceglie le sue letture esclusivamente fra le attrazioni
proposte dal luna-park dei best-sellers; ai lettori argentini appena più sofisticati,
che non è indispensabile cercare nelle stanze dell’Accademia o delle riviste letterarie
d’ogni ordine e grado, il nome di Lamborghini è ormai familiare, e non solo perché
César Aira, suo grande estimatore e amico, ha curato l’edizione di tutte le sue
opere, appoggiato dall’entusiasmo di lettori d’eccezione come Rodolfo Fogwill, Héctor
Libertella e Arturo Carrera.
Intorno a Lamborghini, infatti, si è addensata negli ultimi anni un’attenzione
da cui sono scaturiti numerosi lavori critici (uno per tutti, Y todo el resto
es literatura, raccolta di saggi a cura di Natalia Brizuela e Juan Pablo Dabove,
edita nel 2008 da Interzona), una biografia di oltre mille pagine, monumentale e
pregevole impresa del critico Ricardo Strafacce pubblicata dalla Editorial Mansalva,
e soprattutto una percettibile influenza su alcuni dei più giovani e interessanti
scrittori argentini.
Benché il suo nome e la sua opera non siano più collocabili nello scaffale dei
“segreti meglio custoditi”, Lamborghini – nato nel 1940 in una famiglia della buona
borghesia e fratello di Leonidas, altro eccezionale poeta la cui vita sembra il
perfetto opposto di quella del trasgressivo Osvaldo – resta comunque uno scrittore
misterioso e non facile, la cui straordinaria scrittura (“dopo Borges, è difficile
trovare negli ultimi decenni un’opera poetica così originale e inclassificabile”,
fa notare Rizzante) rischia a ogni passo di essere cannibalizzata dalla leggenda
relativa alla sua vita. Una leggenda “nera”, ovviamente, fatta di droghe, di psicofarmaci
e alcool consumati in quantità inverosimile, di una irresponsabilità quasi infantile,
di rabbiose rotture con gli amici, di idee politiche che dalla militanza peronista
degli anni giovanili lo portarono lentamente a simpatizzare per l’ala destra del
partito di Perón (“si identificava pienamente con alcuni settori sindacali duri,
che erano già in contatto con il lopezreguismo”, ricorda il giornalista Roberto
Guareschi, suo collega a El Cronista Comercial, e altri ex amici lo tacciarono
di “populismo oligarchico”), di un tourbillon di posti di lavoro dove non si presentava
quasi mai e che venivano subito abbandonati, di una passione senza fondo per la
pornografia, di dipinti elaborati a partire dalle proprie feci e, infine, di una
lunga e volontaria prigionia in un attico del Born, a Barcellona, la città in cui
si era trasferito nel 1976, subito il colpo di stato militare, e dove morì di infarto
nel 1985.
Per tre anni, racconta la sua ultima compagna Hanna Muck, non mise quasi mai
piede fuori di casa, e, “nutrendosi di patate fritte e ravioli in scatola”, visse
tra montagne di carte, di quadernini sui quali componeva collages con le immagini
ritagliate da riviste porno, di cartelle in cui, come si scoprì dopo la sua morte,
andava riponendo versi e prosa, il suo unico romanzo lungo (Tadeys, poi pubblicato
nel 1994) e gli otto volumetti di Teatro Proletario de Cámara: più di tremila
pagine, ovvero la maggior parte della sua opera, destinata alla pubblicazione postuma.
In vita, Lamborghini aveva pubblicato, con piccoli editori d’avanguardia che
a stento riuscivano a venderne un migliaio di copie, soltanto tre libri, e non perché
sdegnasse il pubblico o preferisse scrivere per “nessun lettore” (come teorizzerà
Damián Tabarovsky nel suo Literatura de izquierda, polemico saggio
del 2004), ma semplicemente perché scriveva poco e perché nulla, nei suoi testi,
poteva sia pur vagamente compiacere il mercato. Solo la lunga auto-reclusione che
lo vide, come un Proust rioplatense, tagliar fuori l’esterno per rinchiudersi in
un bozzolo di carta, lo avrebbe indotto a concludere la sua vita scrivendo incessantemente,
quasi a espiazione del tempo dilapidato con magnificente noncuranza.
Quei tre primi testi, ovvero El fiord (1969, storia di una vera e propria
orgia di sangue e di sesso) e Sebregondi retrocede (1973), seguiti da Poemas
(1980), erano stati comunque sufficienti a guadagnargli un manipolo di lettori entusiasti,
storditi dalla violenza estrema della sua prosa e ammirati dalla qualità della sua
scrittura, che fanno di lui un autentico “sabotatore” della letteratura, deciso
a farla esplodere perché possa continuare a esistere.
Il corpo torturato e violato, il richiamo costante a un furore sadiano che non
risparmia nessuno, inclusi bambini, partorienti, estranei innocentissimi e sciocchi
come l’ingegnere giapponese Tokuro protagonista della nouvelle La causa
justa, che ha il solo torto di prendere alla lettera gli scherzi osceni dei
partecipanti a una partita fra “scapoli e ammogliati", insomma la ferocia di
Lamborghini, la sua carnalità sanguinosa e scatologica, per molti critici hanno
il sapore di un presagio, di una visione del terribile futuro preparato dalla dittatura;
ad altri, invece, suggeriscono l'appartenenza di questo autore, in realtà assai
poco classificabile, a quel fenomeno rigorosamente latinoamericano e di ascendenza
caraibica che si usa chiamare neobarroco (a coniare il termine fu Severo
Sarduy, squisito romanziere e saggista), del quale lo scrittore sembra condividere
l’estetica basata sull’eccesso, la mobilità, la dissonanza, la frammentazione, il
travestimento, l’ibrido (e in effetti, innamorato delle donne, Lamborghini non smise
mai di aspirare a una femminilità metamorfica, a trasformarsi nel corpo desiderato
indossando panni femminili e truccandosi vistosamente), l’edonismo e la centralità
del desiderio.
Ma, se tutto questo è presente nella sua prosa come nella sua poesia (poesia
spezzata, odiatrice della rima e della regolarità del metro, fitta di parole monche
che vengono piegate a nuovi significati), bisogna anche dire che l’autore è andato
molto più in là, facendo confluire nella sua scrittura la violenza della letteratura
gauchesca, l’imprinting feroce del testo che è alle origini della letteratura argentina
(El matadero di Esteban Echeverría, 1838), il marchio dell’allegoria politica,
ma anche la parodia, la psicanalisi (Lamborghini, con Luis Gusmán e altri, aveva
fondato la rivista Literal, influenzata da Lacan attraverso lo psicanalista
Oscar Masotta), l’ambiguità sessuale e una bizzarra ironia: una trama complicata,
dunque, inesauribile, polimorfica.
La pubblicazione di una parte delle sue poesie, tradotte con autentica perizia
e sensibilità da Rizzante, è davvero un’occasione da non perdere: è ora che anche
i lettori italiani di buona volontà facciano conoscenza con un autore ineludibile,
che, pur profondamente e inequivocabilmente argentino, ha molto da dire a tutti
noi e va considerato, senza lasciarsi avvincere e sviare delle brume leggendarie
che lo vogliono scrittore “maledetto”, soprattutto in base alla sua voce, ancora
oggi sostanzialmente unica.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2013