Un romanzo è parole
Mercè Rodoreda, ovvero una scrittrice misteriosa («la sua vita privata è uno dei misteri meglio custoditi della misteriosissima Barcellona», scrisse García Márquez nel 1983), morta da quasi trent’anni e quindi nell’impossibilità di partecipare docilmente a talk show di ogni ordine e grado, o alle tante esibizioni che oggi rendono il «corpo dello scrittore» visibile e fruibile, promozionale e redditizio. Una scrittrice considerata un classico nel proprio paese d’origine, ma praticamente ignota ai lettori italiani che in passato avevano accolto con indifferenza le traduzioni di quasi tutta la sua opera, apparsa via via presso editori diversi, con esiti di vendita modesti e scarsa attenzione critica.
Una scrittrice, insomma, che pochi si sarebbero azzardati a riproporre, e che tuttavia – complice il centenario della nascita – è tornata l’anno scorso nelle librerie italiane con il suo romanzo più noto, La Piazza del Diamante (La Nuova Frontiera, 2008), riscuotendo un successo incredibilmente ampio. È anche grazie a questo successo, nonché all’intelligenza di un editore ancora capace di fare (e vincere) sagge scommesse, che ora possiamo leggere un altro dei grandi romanzi della Rodoreda, Via delle Camelie (La Nuova Frontiera), tradotto con squisita cura da Giuseppe Tavani e capace di rinnovare lo stupore suscitato dalla prosa straordinaria di un’autrice che diceva di sé: «Scrivo perché mi piace scrivere. Se non sembrasse esagerato direi che scrivo per piacere a me stessa. Se per caso quello che scrivo piace agli altri, tanto meglio».
Come La Piazza del Diamante (1962), anche Via delle Camelie (1966) è nato durante il lungo esilio di Mercè Rodoreda, fuggita dalla Spagna poco prima che le truppe franchiste entrassero a Barcellona, città in cui era nata, dove si era sposata a vent’anni con uno zio materno (una vicenda che le ispirò il suo primo romanzo importante, Aloma, pubblicato nel ’39 e riscritto anni dopo) e dove, durante la guerra civile, aveva lavorato nel Comissariat de Propaganda. Così presa dalla Colometa (la protagonista di La plaça del Diamant) da «non riuscire a fuggire da lei», la scrittrice aveva optato per un personaggio femminile completamente diverso, la «leggermente patetica, leggermente desolata» Cecilia Ce, abbandonata in fasce davanti al giardino di un’anziana coppia, con un biglietto dall’incerta calligrafia appuntato sul petto: una bambina bizzarra, solo confusamente sfiorata dalla guerra che invece travolge la Colometa, e che cresce ossessionata dal desiderio di sapere chi è il suo vero padre, colui che non smetterà di cercare invano in uomini sempre diversi.
Perché Cecilia, allevata tra soffocanti premure, fugge presto dall’infanzia e dal giardino che amorosamente la racchiude, per seguire un ragazzo poverissimo in un miserabile quartiere di baracche sottoproletarie. Dopo di lui, inghiottito dalle patrie galere, verrà un bel gessaio tubercolotico e infine, persa ogni speranza di sfuggire alla fame, arriveranno i «signori» delle Ramblas dove la ragazza andrà a vendersi ogni sera.
La storia di Cecilia è insomma quella di una prostituta che dalla strada finisce per approdare alla quasi clausura delle mantenute e, dopo un’infinita serie di sofferenze, abusi e vessazioni, alla decisione di mettere a frutto solo per sé la propria carne troppo maneggiata, violata e offesa da chi la considera poco meno che un oggetto («Cambieremo la piccola Cecilia, la vestiremo, la faremo ridere e la faremo piangere», dice Marc, il suo sadico amante-padrone), trasformandosi in accorta e danarosa puttana di lusso. Finché si rende conto di dover tornare all’odore di tiglio della sua lontana infanzia, al cancello davanti al quale qualcuno l’ha deposta «come un gattino». E lì l’aspetta ancora una sorpresa, una rivelazione minima che sembra però cambiare la prospettiva intera della sua vita di donna eternamente fuori posto.
A raccontarlo così, il romanzo potrebbe apparire quasi un melodramma – e del resto la Rodoreda, autodidatta costretta a lasciare assai presto la scuola, oltre che di letteratura si era ampiamente nutrita anche di cinema e di feuilletons – perché i materiali in fondo sono gli stessi: la trovatella, la fuga, la vana ricerca dell’amore, la perdizione, la violenza, il peccato… Ma a trasformarli in un’altra cosa è la capacità di esplorare in profondità e con asciuttezza un’esistenza femminile agitata da fantasmi indomabili, come del resto avviene in altri romanzi del periodo realista dell’autrice, prima dell’ambizioso e polifonico Mirall trencat (1974) e dell’incompiuto e postumo La mort i la primavera (1986), in cui sarà l’elemento mitico a prendere il sopravvento.
In Via delle Camelie ritroviamo le adolescenti, le ragazze, le donne viste come prigioniere del proprio sesso e seguite nella loro ricerca di una libertà la cui dolorosa conquista va pagata con la solitudine: come Colometa che trova pace solo accanto a un uomo castrato, Cecilia è perfettamente sola nel suo villino segreto, unico luogo in cui si sente al sicuro e dove si guarda «nuda tra lo specchio e la sera azzurra» dicendo a se stessa: «Il ventre non conta, il seno non ha prezzo, il cuore è da tenere». Tutte le donne della Rodoreda finiscono col voltare le spalle, con un’audacia di cui spesso non si rendono conto, a voci, mani e sguardi maschili che le privano perfino del nome (Colometa è in realtà Natalia, Aloma è Angela, il nome di Cecilia Ce nasce dal caso e dall’equivoco) per inchiodarle al mito della «donna perduta» o all’altro, speculare, della madre e sposa la cui felicità sta nel sacrificio.
Come la strega di un suo breve e mirabile racconto, La salamandra, le donne della Rodoreda trovano scampo prima nell’immaginazione e poi nella metamorfosi («Mi sono servita del tema della metamorfosi come di una fuga, come una liberazione dei miei personaggi. E mia», scrive l’autrice) in animale, in fiore, in angelo – quanti, quanti fiori e angeli nei libri della Rodoreda! –, in una estranea assoluta, in una non-madre metaforicamente o realmente sterile. E tutte dialogano con lo specchio, interlocutore che non restituisce tanto la loro immagine, quanto la vita stessa, spezzata in mille frammenti. Come fa la letteratura, come fa un romanzo, come fa Sofia, personaggio di Mirall trencat che cammina per la casa tenendo davanti a sé, a mo’ di torcia, uno specchio in cui si riflettono parti di soffitto, di tappeto, di ringhiera: un mondo improvvisamente nuovo, diversamente ordinato, in cui l’impossibilità di esser come gli altri ci vogliono diventa infine “normale”.
A rendere eccezionale la semplice storia di Cecilia c’è poi un altro elemento:
il modo in cui viene narrata, in una parola lo stile. Perché, come spiega l’autrice
nel prologo a Mirall trencat: «Un romanzo è parole… Scrivere bene costa fatica.
Per scrivere bene intendo dire cose essenziali con la massima semplicità. Non sempre
ci si arriva. Dare rilievo a ogni parola; le più anodine possono splendere se si
collocano al posto giusto. Quando mi viene una frase con un giro diverso ho una
piccola sensazione di vittoria. Tutta la grazia dello scrivere è fondata sull’indovinare
il mezzo di espressione, lo stile. Ci sono scrittori che lo trovano subito, altri
ci mettono molto tempo, altri ancora non lo trovano mai». Ma non c’è dubbio che
Mercè Rodoreda l’abbia trovato, l’abbia indovinato: ed è questo, come sempre, a
fare la differenza, una differenza immensa.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel marzo del 2009