Lo spirito dei miei padri si innalza nella pioggia
Un’infanzia trascorsa all’ombra della dittatura, un’adolescenza che ha coinciso
con la falsa euforia del menemismo, un volontario sradicamento che lo ha portato
giovanissimo in Germania, dove si è laureato in filologia romanza all’università
di Gottinga, e infine l’approdo a Madrid dove collabora a riviste culturali, traduce
e scrive: questa, in breve, la storia di Patricio Pron, nato a Rosario nel 1975
e considerato uno degli scrittori più interessanti della sua generazione, tanto
in Europa che in America latina. Già proposto ai lettori inglesi da Faber&Faber,
a quelli francesi da Flammarion e agli americani da Knopf, Pron è un autore precoce
e prolifico, che dal 1998 a oggi ha prodotto quattro antologie di racconti (l’ultima,
La vida interior de las plantas de interior è uscita presso la Random House
Mondadori, il suo editore in lingua spagnola) e cinque romanzi che, titolo dopo
titolo, sembrano scandire le tappe di una sicura maturazione, pienamente espressa
in almeno tre opere di indiscutibile valore.
La prima è El comienzo de la primavera (2008), in cui l’ossessione di
un giovane filosofo argentino per l’opera e la persona di un anziano intellettuale
tedesco ci restituisce un complesso ritratto a più voci della Germania post-nazista.
La seconda, El mundo sin las personas che lo afean y lo arruinan (2010),
contiene diciotto racconti ambientati quasi sempre in Germania, bellissimi e a volte
inquietanti come Las ideas, storia di un ragazzino che si perde nel bosco
suburbano di una remota cittadina e riappare soltanto per portare via gli altri
bambini e formare con loro un gruppo misterioso e selvatico, alla cui presenza gli
adulti finiranno per rassegnarsi. La terza, infine, è Lo spirito dei miei padri
si innalza nella pioggia (Guanda, pag. 197), romanzo il cui titolo rimanda all’ultimo
verso di I fellowed sleep (una celebre poesia di Dylan Thomas), e che arriva
finalmente in Italia nella traduzione di Roberta Bovaia, brava interprete dello
spagnolo ingannevolmente neutro del giovane scrittore argentino.
Come in buona parte dei suoi testi precedenti, anche qui Pron resta fedele ad
alcuni temi che gli stanno a cuore: il rapporto tra generazioni e in particolare
quello tra genitori e figli, la memoria, la lontananza e il ritorno, lo straniamento,
l’esigenza di una dimensione etica e politica da reinventare e riprogettare. Ma
non c’è dubbio che questo sia il suo scritto più autobiografico, quello in cui scava
più apertamente e in profondità nella propria vicenda personale e familiare, evitando
sempre, tuttavia, i vezzi e i compiacimenti di quella autofiction generazionale
che oggi rappresenta il marchio di fabbrica (e il limite) di certi scrittori “giovani”.
La vicenda che ci racconta Pron è quella di un argentino espatriato in Germania
che all’improvviso torna a Rosario, la sua città, per rivedere il padre gravemente
ammalato. Tra lunghe soste nei corridoi dell’ospedale e l’esplorazione di un universo
domestico abbandonato otto anni prima, il figlio trova le cartelline in cui il padre
giornalista ha riunito articoli, fotografie e appunti su un uomo, Alberto Burdisso,
scomparso tempo prima e ritrovato morto in fondo al pozzo dove lo ha gettato una
banda di assassini feroci e improvvisati. Ci viene così rivelata una doppia indagine,
quella testimoniata dalle carte paterne e quella del protagonista che comincia a
interrogarsi sul passato dei suoi, quando scopre tra i documenti la notizia di un’altra
remota sparizione: Burdisso, infatti, aveva una sorella introdotta alla militanza
da Pron padre, arrestata e quindi desaparecida.
Una storia vera, quella dei due Burdisso, come vera è l’appartenenza dei genitori
di Pron a un gruppo della resistenza peronista più ortodossa, sciolto alla morte
di Perón. Scivolata in una silenziosa clandestinità dopo
l’avvento della dittatura, la famiglia è vissuta tra le mille precauzioni ispirate
da un terrore quotidiano, ed è intorno a quell’ombra proiettata sull’ infanzia sua
e dei fratelli che Pron ragiona e riflette. Vuole, a partire dai pochi versi che
la ragazza Alicia ha lasciato e dalla foto in cui appare sorridente, porre domande
mai fatte prima, riaprire le ferite e guardarle da vicino. Perché, come dice lo
scrittore Marcelo Cohen nell’epigrafe scelta per l’ultima parte del romanzo: “Siamo
sopravvissuti, resistiamo alla morte di altri. Non c’è altro rimedio. E non c’è
altro rimedio che ereditare ciò che rimane. Una casa, un carattere, una società,
un paese, una lingua. Poi verranno altri: siamo anche la gente che verrà. Che cosa
ne facciamo di questa eredità?”.
È necessario, quindi, che padri e figli si parlino davvero, che generazioni
diverse si prendano vicendevolmente le misure, che un’eredità venga consegnata o
reclamata. Il romanzo di Pron lo fa presente con forza, anche se non offre risposte
e si riserva il diritto di mettere sul tavolo opinioni a volte agre: per esempio
che i figli siano stati una sorta di “premio di consolazione” per il fallimento
della militanza, e allo stesso tempo una garanzia di normalità che poteva valere,
in certi casi, da assicurazione sulla vita. E potrebbe essere interessante scoprire
nel sito dello scrittore le puntigliose osservazioni e obiezioni elaborate da suo
padre “Chacho” Pron, come per ricondurre nei confini di un fedele resoconto quello
che invece è e rimane un romanzo.
E che romanzo: un abilissimo gioco di specchi in cui si riflettono le due indagini
parallele, il passato e il presente, le simmetriche sparizioni di Alberto e Alicia,
la migrazione e il ritorno, il fiume di sogni (una sarabanda quasi surrealista)
scaturito da una breve malattia del figlio e il sonno buio del padre nel suo letto
di ospedale, le stanze protettrici della casa e un esterno in cui l’aria “è stata
spostata” e riempita da tutte le cose che non si vorrebbero mai affrontare, come
la morte dei genitori o il paesaggio di un’ infanzia dalla quale non si riesce a
distogliere gli occhi.
Un autentico puzzle, insomma, i cui pezzi non sono veri e propri capitoli ma
frammenti di varia lunghezza, che a un certo punto sembrano simulare il romanzo
poliziesco e la cronaca nera, oppure si trasformano in ipnotici elenchi che aiutano
a prendere le distanze da emozioni e domande: i libri della biblioteca dei genitori,
le parole che più spesso figurano nei titoli – tattica, strategia, lotta, Argentina,
Perón, rivoluzione –, i componenti degli psicofarmaci prescritti dallo psichiatra
tedesco e i loro effetti secondari, gli oggetti di un tempo, immutati ma curiosamente
rimpiccioliti.
Il tutto è sostenuto da un linguaggio asciutto, trattenuto, senza sbavature,
che non sbaglia mai registro e contribuisce a mettere in evidenza l’originalità
dell’approccio a questioni come la dittatura o i desaparecidos, che la letteratura
argentina contemporanea ha trattato così di frequente e così a fondo. All’abituale
intreccio di vicende personali e collettive, o al puro e semplice ricorso alla memoria,
Pron ha aggiunto uno sguardo personalissimo sulle vicende del proprio paese, proprio
come hanno fatto altri “figli” argentini, suoi coetanei: per esempio Felix Bruzzone,
autore del bizzarro Los topos (2008), i cui genitori appartenevano all’ERP
e, sequestrati dai militari, non tornarono mai a casa; oppure Laura Alcoba, cui
dobbiamo La bambina della casa dei conigli (Piemme 2009), fuggita in Francia
insieme alla madre montonera. Modellate dalla dittatura e dal suo contrario, cioè
dalla tenace militanza dei genitori, le loro infanzie hanno generato racconti in
cui l’elemento autobiografico viene trasfigurato e la politica si conferma, in altre
forme e con altre figure, indispensabile. E va da sé che per narrare tutto questo
non è sufficiente essere figli: bisogna essere, come Pron, autentici scrittori.
Questo articolo è stato pubblicato su Il manifesto nell’aprile 2013