sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Ricardo Romero


Ricardo Romero



Tourette per tre

“La letteratura poliziesca argentina – quella di Jorge Luis Borges, di Roberto Arlt e di Rodolfo Walsh – si meritava una collana di romanzi in cui si uccida e si faccia giustizia usando esclusivamente sangue nazionale”. Con queste parole Juan Sasturain – scrittore, giornalista, sceneggiatore di fumetti e direttore della celebre rivista di comic Fierro – ha presentato nel 2008 Negro Absoluto (Ediciones Aquilina), collana dedicata a gialli e noir rigorosamente ambientati a Buenos Aires. Una scelta editoriale, la sua, che intende far rivivere la grande tradizione della novela negra locale, ma tenendo presente l’invito del romanziere e critico Carlos Gamerro a cercare strade narrative diverse da quelle tradizionali, in un paese dove l’ultima dittatura militare ha reso insostenibile e improbabile la finzione “criminale”, superata mille volte dalla realtà.

Dopo qualche anno di vita, il bilancio di Negro Absoluto sembra piuttosto buono grazie ad autori interessanti, a romanzi piacevoli e ad almeno un’autentica rivelazione, come scopriranno i lettori abbastanza curiosi da immergersi nella Buenos Aires di Ricardo Romero (La sindrome di Rasputin, Sellerio), nato nel 1976, che, oltre ad assistere Sasturain nella direzione della collana, va scrivendo una entusiasmante trilogia “nera” il cui primo volume è stato ottimamente tradotto da Maria Nicola, mentre il secondo (Los bailarines del fin del mundo) è uscito da non molto in lingua originale.

Editor attento alla letteratura di genere, performer, autore di un libro di racconti e di un romanzo d’esordio apparso nel 2003, in La Sindrome di Rasputin Romero disegna magistralmente una metropoli fatiscente e notturna in cui interi quartieri, fatti saltare da ignoti terroristi, continuano lentamente a bruciare, mentre le gallerie della sotterranea sono occupate da rave colossali e da famiglie di senzatetto. Ed è nelle sue strade vuote, nei suoi edifici deserti che si muovono Maglier, Muishkin e Abelev, i protagonisti accomunati dalla sindrome di Tourette, malattia che non intendono curare perché la considerano parte indispensabile della loro identità.

Cinefili accaniti, prigionieri di una serie di tic, rituali e coazioni a ripetere, amici grazie a una marginalità singolare ed estrema, i tre si ritrovano coinvolti in una serie di delitti che per un soffio non trasformano uno di loro in vittima (Abelev, l’ebreo che grida inarrestabili e involontari saluti nazisti, è vivo per miracolo grazie alla “sindrome di Rasputin”, ossia all’ostinata volontà di sopravvivere) e costringono gli altri due a improvvisarsi detectives contro tutto e contro tutti.

Tra pornografi geniali, mature attrici senza inibizioni, amabili artisti di strada, coppie di gemelli e di naziskin, un gigantesco russo di nome Rogozin e la scoperta che il senso della vita è non farsi ammazzare, il romanzo procede a ritmo serratissimo, senza mai dimenticare le ragioni di una scrittura che si adatta alla trama come un guanto, segnalandosi per una densa, sorprendente produzione di immagini e per una sorta di funambolica ars combinatoria, che invita a condividere con l’autore un enorme serbatoio di narrazioni e figure. Fittissimo di rimandi e citazioni (cinema, serie televisive e soprattutto letteratura e ancora letteratura, dall’Idiota di Dostoevskij al feuilleton) che non risultano mai pretenziose e pretestuose, ma fluiscono con naturalezza e consentono a chi legge di farsi a sua volta detective per scovarle tutte, La sindrome di Rasputin racconta il contrastato esercizio del diritto alla solitudine e a una diversa, anche se dolorosa, percezione del mondo. Ma questa non è, ovviamente, la sua unica chiave di lettura: a ciascuno il compito di trovare la propria e di stupirsi, grazie a un narratore nato che farà ancora parlare di sé.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2012