Ricardo Romero |
Tourette per tre
“La letteratura poliziesca argentina – quella di Jorge Luis Borges, di Roberto
Arlt e di Rodolfo Walsh – si meritava una collana di romanzi in cui si uccida e
si faccia giustizia usando esclusivamente sangue nazionale”. Con queste parole Juan
Sasturain – scrittore, giornalista, sceneggiatore di fumetti e direttore della celebre
rivista di comic Fierro – ha presentato nel 2008 Negro Absoluto (Ediciones
Aquilina), collana dedicata a gialli e noir rigorosamente ambientati a Buenos Aires.
Una scelta editoriale, la sua, che intende far rivivere la grande tradizione della
novela negra locale, ma tenendo presente l’invito del romanziere e critico
Carlos Gamerro a cercare strade narrative diverse da quelle tradizionali, in un
paese dove l’ultima dittatura militare ha reso insostenibile e improbabile la finzione
“criminale”, superata mille volte dalla realtà.
Dopo qualche anno di vita, il bilancio di Negro Absoluto sembra piuttosto buono
grazie ad autori interessanti, a romanzi piacevoli e ad almeno un’autentica rivelazione,
come scopriranno i lettori abbastanza curiosi da immergersi nella Buenos Aires di
Ricardo Romero (La sindrome di Rasputin, Sellerio), nato nel 1976, che, oltre
ad assistere Sasturain nella direzione della collana, va scrivendo una entusiasmante
trilogia “nera” il cui primo volume è stato ottimamente tradotto da Maria Nicola,
mentre il secondo (Los bailarines del fin del mundo) è uscito da non molto
in lingua originale.
Editor attento alla letteratura di genere, performer, autore di un libro di
racconti e di un romanzo d’esordio apparso nel 2003, in La Sindrome di Rasputin
Romero disegna magistralmente una metropoli fatiscente e notturna in cui interi
quartieri, fatti saltare da ignoti terroristi, continuano lentamente a bruciare,
mentre le gallerie della sotterranea sono occupate da rave colossali e da
famiglie di senzatetto. Ed è nelle sue strade vuote, nei suoi edifici deserti che
si muovono Maglier, Muishkin e Abelev, i protagonisti accomunati dalla sindrome
di Tourette, malattia che non intendono curare perché la considerano parte indispensabile
della loro identità.
Cinefili accaniti, prigionieri di una serie di tic, rituali e coazioni a ripetere,
amici grazie a una marginalità singolare ed estrema, i tre si ritrovano coinvolti
in una serie di delitti che per un soffio non trasformano uno di loro in vittima
(Abelev, l’ebreo che grida inarrestabili e involontari saluti nazisti, è vivo per
miracolo grazie alla “sindrome di Rasputin”, ossia all’ostinata volontà di sopravvivere)
e costringono gli altri due a improvvisarsi detectives contro tutto e contro tutti.
Tra pornografi geniali, mature attrici senza inibizioni, amabili artisti di
strada, coppie di gemelli e di naziskin, un gigantesco russo di nome Rogozin e la
scoperta che il senso della vita è non farsi ammazzare, il romanzo procede a ritmo
serratissimo, senza mai dimenticare le ragioni di una scrittura che si adatta alla
trama come un guanto, segnalandosi per una densa, sorprendente produzione di immagini
e per una sorta di funambolica ars combinatoria, che invita a condividere
con l’autore un enorme serbatoio di narrazioni e figure. Fittissimo di rimandi e
citazioni (cinema, serie televisive e soprattutto letteratura e ancora letteratura,
dall’Idiota di Dostoevskij al feuilleton) che non risultano mai pretenziose
e pretestuose, ma fluiscono con naturalezza e consentono a chi legge di farsi a
sua volta detective per scovarle tutte, La sindrome di Rasputin racconta
il contrastato esercizio del diritto alla solitudine e a una diversa, anche se dolorosa,
percezione del mondo. Ma questa non è, ovviamente, la sua unica chiave di lettura:
a ciascuno il compito di trovare la propria e di stupirsi, grazie a un narratore
nato che farà ancora parlare di sé.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio del 2012