Jorge Luis Borges |
Gli italiani? “Gentaglia senza il minimo rispetto”
L’idea era venuta a Adolfo Bioy Casares nell’inverno del 1944, mentre era a
letto per un’influenza: perché non proporre ai lettori argentini una serie di polizieschi
accuratamente scelti, ben tradotti e confezionati con eleganza? Fu così che, l’anno
seguente, nacque El septimo circulo, famosa collana della Emecé che Borges
e Bioy Casares diressero per una decina di anni, curandola fin nei minimi dettagli.
Il nome era di chiara ispirazione dantesca, alle copertine provvedeva il pittore
cubista José Bonomi, i traduttori e i revisori – tra i quali c’era la madre di Borges,
Leonor Acevedo – venivano scelti in base a prove severe e la selezione dei titoli
portava la riconoscibile impronta dei curatori e del loro gusto per il miglior mistery
all’inglese. Non a caso il primo autore della nuova collana fu Nicholas Blake –
ovvero il poeta irlandese Cecil Day-Lewis –, mentre ben pochi romanzieri di scuola
americana ebbero l’onore di figurare nel catalogo (ma a recuperarli ci penserà Ricardo
Piglia, che a partire dal 1969 dirigerà, per la Editorial Tiempo Contemporáneo,
l’altrettanto famosa Serie Negra).
Non c’era dubbio, insomma, che Borges e Bioy Casares fossero devoti al poliziesco
in quanto macchina narrativa dal meccanismo perfetto, il cui fulcro è un enigma
sanguinoso ma stilizzato, quasi un gioco intellettuale estraneo alla violenza e
al cupo realismo dell’hard boiled. Per averne conferma, se mai ce ne fosse
bisogno, basta scorrere l’indice della loro antologia Los mejores cuentos policiales
(Emecé 1944) – nota in Italia come I signori del mistero (Editori Riuniti,
1982) – vero e proprio abbozzo di un canone in cui troviamo, fra gli altri, il nome
di Honorio Bustos Domecq, creatore del singolare detective che secondo Rodolfo Walsh
rappresenta la figura fondante del poliziesco argentino.
Ma chi era Busto Domecq? Nient’altro che il duo Borges-Bioy Casares, nascosto
dietro uno pseudonimo composto dai cognomi dei propri nonni e bisnonni: un autore
immaginario di cui troviamo la immaginaria nota biografica in apertura della raccolta
di racconti Sei problemi per don Isidro Parodi, pubblicata da Emecé nel 1942,
tradotta in italiano per la prima volta nel 1971 e oggi riproposta da Adelphi a
cura di Antonio Melis, nella bella e vivace versione di Lucia Lorenzini.
Sin dalle prime righe della falsa biografia è evidente che la collaborazione
tra Borges e Bioy (testimoniata dalle molte opere scritte a quattro mani, nonché
dalle 1663 pagine di Borges, il volume pubblicato nel 2011 dalla Editorial
Destino in cui sono raccolti tutti i brani dei diari di Bioy che riguardano un sodalizio
cinquantennale), è all’insegna del divertimento e, pur rispettando i canoni del
genere prediletto, riesce a parodiarli brillantemente.
Di racconto in racconto, Don Isidro, ex barbiere condannato ingiustamente per
omicidio, risolve con incredibile perizia sei casi criminali che rappresentano altrettanti
archetipi delittuosi. E lo fa senza muoversi dalla sua cella, obeso e immobile,
apparendoci come la quintessenza del detective tutto cervello, un distillato di
deduzioni, la personificazione di un poliziesco che, sostiene Borges nella conferenza
El cuento policial (in Borges oral, Obras completas, Emecé
1996), “salva l’ordine in un’epoca di disordine”, proprio mentre la letteratura
“tende a sopprimere i personaggi, i temi, e tutto è assai vago”.
Anche se l’eco di Chesterton, ma anche di Stevenson e del suo principe-tabaccaio
Florizel, è chiaramente percepibile, i sei “problemi” si rifanno a codici di comportamento
e figure del sottobosco intellettuale argentino dell’epoca, satireggiate senza pietà:
scrittorelli falliti, critici ottusi, accademici presuntuosi, insopportabili bas-bleu.
Insieme a loro, la presenza di avventurieri, nuovi ricchi e, ovviamente, degli innumerevoli
italiani che Parodi (criollo dal cognome genovese) definisce gentaglia senza
il minimo rispetto, compone un ritratto feroce ma leggero della cultura urbana di
una Buenos Aires sull’orlo del peronismo e lo correda di titoli, citazioni e autori
tratti da una vasta e ridicola biblioteca immaginaria, simbolo più che mai attuale
della sovrabbondanza di una produzione irrilevante, fatta di libri che nessuno legge
o di best sellers insensati.
Esilaranti e allo stesso tempo non inscrivibili nella categoria del semplice
divertissement, questi racconti “incatenati” ebbero tanto successo che Bustos
Domecq firmò, nel giro di un ventennio, altri volumi di racconti, e che un suo “discepolo”,
Benito Suárez Lynch (di nuovo i cognomi dei nonni!), sfornò nel 1946 Un modelo
para la muerte, in cui, con l’avanzare di Peròn, la satira politica fa la parte
del leone e Buenos Aires diventa specchio di tutti i vizi nazionali.
Qui e adesso, naturalmente, ai lettori potrebbe venire il dubbio che i problemi
di don Isidro siano troppo remoti e troppo “argentini” per interessarli, ma è il
caso che si rassicurino: l’intero corpus dei racconti di Bustos Domecq non è invecchiato
di un giorno e rappresenta una lettura incantevole per gli appassionati e gli esegeti
del mistery classico, per chi riconosce in Borges e Bioy Casares due irraggiungibili
maestri del ’900 e, naturalmente, per chi possiede un adeguato senso dell’umorismo.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2012