Da El matadero a Soy, un percorso LGBT in Argentina
Vivian ed Eduardo si sono sposati nella palestra del Penitenziario di Ezeiza,
Buenos Aires. Lui in giacca scura, lei in abito bianco e mazzolino di margherite,
dopo la cerimonia hanno fatto ritorno ciascuno nella sua cella, Vivian nel settore
dei travestiti, Eduardo in quello riservato agli omosessuali. Il loro, infatti,
è uno dei tanti matrimonios igualitarios (il primo tra detenuti) celebrati
in Argentina dopo il luglio del 2010, grazie alla legge che consente a persone dello
stesso sesso di sposarsi e di godere dei medesimi diritti di una coppia eterosessuale
(un primo bilancio della sua applicazione lo si trova in Matrimonio igualitario
di Bruno Bimbi, edito da Planeta nel 2011). Una storia piccola, quella dei due ragazzi
che si sono ritrovati in galera dopo essersi innamorati e persi quando erano liberi.
Come una storia piccola è quella di María Belén, giovanottone di Cordoba in abiti
femminili, cui un anno fa un giudice ha affidato in via definitiva i due fratellini
di cui si è presa cura sin da quando erano piccolissimi, sottraendoli a continue
violenze.
Entrambe le vicende sono un esempio di come l’Argentina sia cambiata e stia
cambiando, sia pur lentamente, grazie a leggi per le quali la comunità LGBT ha combattuto
per anni e che i gay italiani possono solo sognare. Ma soprattutto sembrano narrazioni
già pronte a uscire dalle pagine di cronaca per confluire nei racconti e romanzi
che la letteratura argentina va producendo intorno al tema dell’omosessualità, che
nel corso del tempo l’ha segnata così profondamente. Un fiume carsico che solo in
anni relativamente recenti è venuto in superficie, ma che secondo Adrián Mel, autore
di El amor de los muchachos. Homosexualidad y literatura (Ediciones Lea,
pag. 345, 2005), nasce con uno dei primi racconti argentini, El matadero
di Esteban Echeverría (1838), di cui è uscita di recente una bella traduzione con
testo a fronte presso l’editore Portaparola (Il mattatoio, pag. 96).
Il protagonista è un giovane patriota aitante e ben vestito che, passando vicino
a un macello di Buenos Aires, viene sequestrato da brutali matarifes neri
e mulatti e si salva dall’essere violato solo grazie a una crisi di furore così
violenta da ucciderlo: una chiara metafora dell’Argentina all’epoca del dittatore
Rosas e del contrasto tra “civiltà e barbarie” descritto da Domingo Sarmiento, ma
anche un testo suscettibile di altre letture, che secondo Melo possiede “evidenti
connotazioni erotiche, sadomasochiste e vampiriche” proprio per la centralità di
quel corpo maschile denudato, costretto, minacciato.
Nella nascente letteratura nazionale “sesso, politica, disprezzo e tragedia”
si danno dunque la mano e preannunciano lo sporadico e allusivo affiorare della
presenza omosessuale nei testi del XIX secolo, come En la sangre di Eugenio
Cambaceres (1887), il cui protagonista è un giovane italiano di repellente bruttezza
che gioca a “uomini e donne” con altri ragazzi di strada. Percepiti come pericolo
non soltanto sociale, ma sessuale, i corpi rudi degli immigrati o quelli degli ebrei
dipinti come “manierati ed effeminati” in La bolsa di Julian Martel (1891),
il primo romanzo antisemita argentino, continuano a corrispondere, nell’immaginario
della borghesia, a quelli corruttori dei matarifes del racconto di Echeverría.
Nei romanzi e nella realtà l’omosessuale è un nemico, un peccatore da punire
che nel ventesimo secolo diventerà un malato per la scienza e un reo per la società
civile, come fa notare Osvaldo Bazán nella sua imponente Historia de la
homosexualidad en Argentina. De la conquista de America al siglo XXI (Editorial
Marea, pag. 480, 2004), in cui si legge del decreto di un generale peronista che
impediva agli omosessuali di votare, per “ragioni di indegnità”.
Se nel vicino Brasile già nel XIX secolo appaiono romanzi come quelli di Adolfo
Ferreira Caminha (Playground ha pubblicato nel 2005 il suo Il negro) che
affrontano esplicitamente tematiche omosessuali, in Argentina bisognerà aspettare
il 1926 per scoprire in Il giocattolo rabbioso, primo romanzo di Roberto
Artl, quella che è forse la prima vera scena omosessuale: un approccio denunciato
dal protagonista adolescente come una disgustosa “aberrazione”. Ed è solo a partire
dagli anni ’50 che cominciano a uscire testi immediatamente censurati, come La narración de la historia del filosofo e romanziere
Carlos Correas (1959) e, nel ’64, l’eccezionale romanzo urbano Asfalto
di Renato Pellegrini, su un ragazzo di provincia perso nella Gran Buenos Aires,
che costerà alcuni mesi di prigione al suo autore e che, a lungo dimenticato, è
stato riproposto finalmente dalla Editorial Tirso, ma risulta inesplicabilmente
inedito in Italia nonostante la grande qualità di una scrittura durissima e asciutta.
È all’inizio della decade del ’70, però, che la letteratura a tematica gay offre
i suoi testi migliori, in coincidenza con la fondazione del Frente de Liberación
Homosexual Argentino e con l’inizio di una serie di lotte proiettate non solo
all’esterno, ma anche all’interno della sinistra, che coltivava come tutti il mito
nazionale della virilità ed era lontana dall’elaborare una visione diversa da quella
tradizionale (una splendida radiografia dei rapporti tra il militante-tipo
e il marica la offre Manuel Puig nel suo Il bacio della donna ragno,
la cui edizione più recente è quella nei tascabili Feltrinelli). Escono tra gli
altri, nel giro di pochi anni, un crudele capolavoro mai abbastanza apprezzato dai
lettori italiani come The Buenos Aires Affair di Manuel Puig (Sellerio, 2000,
pag.312), Solo Angeles di Enrique Medina, La boca de la ballena di
Héctor Lastra (altro romanzo che meriterebbe una traduzione), Monte de Venus di Reina Roffè, una delle poche a parlare
dell’amore tra donne, sul quale ha sempre pesato un doppio interdetto e di cui molto
si tacerà fino all’uscita di En breve carcel (1981) di Sylvia Molloy, grande
studiosa che vive da quarant’anni negli Stati Uniti dove ha insegnato a Princeton
e a Yale, ma anche autrice di pochi bellissimi romanzi, come El común olvido (Editorial Norma, 2002.
pag. 356), in cui un uomo di mezza età scopre il passato lesbico, nascosto e represso,
della madre morta.
A questa fioritura corrisponde però una diaspora: minacciati dalla Triple A
per il loro orientamento sessuale ancor prima che politico, vanno in volontario
esilio Manuel Puig (scrittore da cui non si finisce mai di imparare e che tutti,
oggi, dovrebbero riprendere in mano per rendersi conto di quanto la sua opera sia
attuale e la sua lezione indispensabile) e il sulfureo Néstor Perlongher, poeta
e sociologo, militante del Partido Obrero e del FLHA, nonché autore di tre spettacolari
raccontini “maledetti” su quella grande icona gay che è Evita; e se ne erano già
andati in Francia Hector Bianciotti – che nel suo Lo que la noche cuenta al día racconta l’imposizione del codice eterosessuale come unico
possibile nella Buenos Aires peronista – e Raúl Damonte alias Copi, marica estremo e provocatorio, disegnatore geniale e autore di
teatro, ma anche di romanzi scritti direttamente in francese, come Le bal des
folles e La guerre des pédés, che oggi vengono riscoperti dai lettori
argentini.
Il buio della dittatura militare sta per travolgere il paese, e i gay verranno
perseguiti con speciale ferocia: molti scompariranno (anche se, in parte per le
pressioni della Chiesa, in parte per autocensura, nessuno riconoscerà mai l’orientamento
sessuale come causa di desaparición), mentre movimenti ed associazioni verranno disarticolati. Al profondo silenzio
di quegli anni, tuttavia, dopo il ritorno della democrazia corrisponderà la lenta
ma decisa apparizione di personaggi, storie e scritture omosessuali, in grandi romanzi
come Plata quemada (Soldi bruciati, Feltrinelli, 2008) di Ricardo
Piglia – uno dei più grandi scrittori argentini dei nostri giorni – in cui si narra
di due rapinatori legati da un sodalizio amoroso che nel 1965 svaligiano una banca
e fuggono in Uruguay, dove moriranno insieme in uno scontro con la polizia. E di
grande spessore è la trilogia di Guillermo Saccomanno che include La lengua del
malón, El amor argentino e 77 (quest’ultimo pubblicato in Italia
da Tropea nel 2010), il cui protagonista è il professor Gómez, omosessuale che si
nasconde da sempre, sotto il peronismo come durante la dittatura militare. I tre
romanzi, che raccontano trent’anni di violenza politica ricorrendo abilmente alla
formula del noir, sono anche uno spaccato straordinario della vita di un
gay in una società omofoba che può privarlo di tutto all’improvviso (il lavoro,
la casa, la vita) e che lo costringe al segreto e alla marginalità. Il tutto complicato
da un rischioso amore con un poliziotto dalla doppia vita, violento e
fedele al regime.
Di silenzio, oscurità, rabbia, parla anche La brasa en la mano (1983),
il primo dei due romanzi di un buon poeta morto di AIDS nel 1994, Oscar Villordo,
che ha raccontato con grande crudezza ed efficacia, in questa novela autobiografica
che parte dagli anni di infanzia, la vita di un giovane omosessuale nella Buenos
Aires degli anni ’50 e ’60. A lui è dedicata oggi la prima biblioteca argentina
a tematica omosessuale, aperta l’anno scorso a Buenos Aires. Ed è sui suoi scaffali
come su quelli di Otras Letras, l’unica libreria LGBT della città, che si
allineano le opere delle ultime generazioni, dalle antologie come Historia di
un deseo (Planeta, 2000) e Aventuras (Ediciones Belleza y Felicidad,
2002), ai romanzi e ai racconti di autori che si chiamano Rubén Mettini, Leopoldo
Brizuela, Alejandro Margulis, Diego Vecchio, Laura Ramos, Dalia Rossetti, Fernanda
Laguna.
Convinti come sono che la letteratura gay non esista, tutti affermano che non
si tratta di un genere, ma semplicemente di un tema che riaffiora – oppure no –
nei loro libri come in quelli di scrittori eterosessuali, con la naturalezza consentita
da tempi in cui uno dei principali quotidiani argentini, Pagina/12, pubblica
un supplemento intitolato Soy e interamente dedicato alla cultura LGBT, e
telenovelas come Botineras, ambientate nel mondo del calcio, propongono ardenti
scene di sesso tra i protagonisti maschili. Ma, nonostante siano consapevoli dell’esistenza
di un mercato gay pronto a consumare prodotti culturali amabilmente light, nessuno
di loro sembra disposto a fare concessioni in questo senso. Il che, inutile dirlo,
è davvero un buon segno.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nell’aprile del 2011