Diego Zúñiga |
Nel deserto di Atacama
Una nebbia generata dall’anticiclone del Pacifico, che forma grandi banchi compatti
e si disperde solo con il calore del mezzogiorno: questa è la camanchaca,
che in anni recenti i cileni stanno cercando di utilizzare come risorsa idrica grazie
a torri “acchiappanebbia” simili a surreali trivelle rivolte verso il cielo. Ma
Camanchaca è anche il primo romanzo del cileno Diego Zúñiga, che, pubblicato
in lingua originale nel 2009, appare oggi per la Caravan Edizioni, cui dobbiamo
la scelta audace e opportuna di un autore sconosciuto ma promettente, nonché un
bel titolo italiano per sostituirne uno intraducibile (Passeremo per il deserto),
un’ottima grafica e una straniante copertina in cui una balena si alza in volo su
un deserto montagnoso.
Nato a Iquique nel 1987, giornalista, blogger e critico, Zúñiga fa parte delle
ultime leve letterarie cilene, ben poco conosciute in Italia dove per ora sono arrivati
solo Alejandro Zambra, Alejandra Costamagna, Rafael Gumucio e Lina Meruane, mentre
restano sconosciuti nomi già noti oltremare come Cynthia Rimsky, Carlos Labbé, Marcelo
Mellado, Álvaro Bisama, oltre a un nugolo di autori ancora più giovani di cui ha
dato conto nel 2011 l’interessante antologia Voces-30 curata da Carla Morales
Ebner.
Il fatto che Diego Zúñiga sia così giovane non manca ovviamente di colpire,
ma solo perché la sua maturità letteraria è già indiscutibile (le “malattie infantili”
della scrittura se le è lasciate alle spalle con i primi racconti, in cui l’imprinting
bolañiano era sin troppo evidente), tanto da aver prodotto un romanzo d’esordio
asciutto e originale, che si distingue per la cura formale e un’economia di mezzi
ai confini con una voluta afasia, e racconta di un ragazzo della piccola e impoverita
borghesia cilena che da Santiago, dove vive con la madre, va a trovare la nuova
famiglia del padre e compie con lui un viaggio attraverso il deserto di Atacama.
L’ennesimo romanzo sull’adolescenza, dunque, che rimanda ancora una volta il
lettore al giovane Holden di turno, in cerca di un suo posto nel mondo? Senz’altro
qualcosa di più, perché Passeremo per il deserto non è solo il ritratto,
gelido come un riflesso nello specchio e altrettanto inquietante, di un ragazzo
intrappolato in una quotidianità squallida, nei silenzi e nei segreti di una famiglia
spezzata, nella goffaggine del proprio corpo sovrappeso, nella solitaria mania di
catturare col registratore le voci e i suoni che lo circondano. In un paesaggio
che va da quello urbano della capitale e delle remote cittadine di provincia sino
al grigio del deserto, con l’accompagnamento sonoro della televisione sempre accesa,
del ronzio dei videogiochi e della musica di Pat Metheny, il protagonista osserva,
ricorda, ascolta più che parlare, e la sua narrazione si spezza in frasi brevissime
e frammenti malinconici che sembrano emergere dalla camanchaca per lasciarci
intravedere spezzoni di realtà nascoste (la scomparsa di uno zio di cui si parla
solo per allusioni, tradimenti, un incesto appena accennato ma inequivocabile),
ombre di delitti e misteri “esemplari”, fatti di cronaca legati al passato recente
del Cile.
Ed è in questo modo che il testo ci consente di vedere dietro lo specchio e,
come sottolinea Vincenzo Barca nella sua intelligente postfazione, ci rimanda a
“violenze di dominio pubblico che riverberano sulle storie private, evocando la
brutalità di un periodo tutt’ora innominabile” le cui nebbie si possono dissipare
soltanto “nominando il passato per superarlo”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2012