sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Diego Zúñiga


Diego Zúñiga



Nel deserto di Atacama

Una nebbia generata dall’anticiclone del Pacifico, che forma grandi banchi compatti e si disperde solo con il calore del mezzogiorno: questa è la camanchaca, che in anni recenti i cileni stanno cercando di utilizzare come risorsa idrica grazie a torri “acchiappanebbia” simili a surreali trivelle rivolte verso il cielo. Ma Camanchaca è anche il primo romanzo del cileno Diego Zúñiga, che, pubblicato in lingua originale nel 2009, appare oggi per la Caravan Edizioni, cui dobbiamo la scelta audace e opportuna di un autore sconosciuto ma promettente, nonché un bel titolo italiano per sostituirne uno intraducibile (Passeremo per il deserto), un’ottima grafica e una straniante copertina in cui una balena si alza in volo su un deserto montagnoso.

Nato a Iquique nel 1987, giornalista, blogger e critico, Zúñiga fa parte delle ultime leve letterarie cilene, ben poco conosciute in Italia dove per ora sono arrivati solo Alejandro Zambra, Alejandra Costamagna, Rafael Gumucio e Lina Meruane, mentre restano sconosciuti nomi già noti oltremare come Cynthia Rimsky, Carlos Labbé, Marcelo Mellado, Álvaro Bisama, oltre a un nugolo di autori ancora più giovani di cui ha dato conto nel 2011 l’interessante antologia Voces-30 curata da Carla Morales Ebner.

Il fatto che Diego Zúñiga sia così giovane non manca ovviamente di colpire, ma solo perché la sua maturità letteraria è già indiscutibile (le “malattie infantili” della scrittura se le è lasciate alle spalle con i primi racconti, in cui l’imprinting bolañiano era sin troppo evidente), tanto da aver prodotto un romanzo d’esordio asciutto e originale, che si distingue per la cura formale e un’economia di mezzi ai confini con una voluta afasia, e racconta di un ragazzo della piccola e impoverita borghesia cilena che da Santiago, dove vive con la madre, va a trovare la nuova famiglia del padre e compie con lui un viaggio attraverso il deserto di Atacama.

L’ennesimo romanzo sull’adolescenza, dunque, che rimanda ancora una volta il lettore al giovane Holden di turno, in cerca di un suo posto nel mondo? Senz’altro qualcosa di più, perché Passeremo per il deserto non è solo il ritratto, gelido come un riflesso nello specchio e altrettanto inquietante, di un ragazzo intrappolato in una quotidianità squallida, nei silenzi e nei segreti di una famiglia spezzata, nella goffaggine del proprio corpo sovrappeso, nella solitaria mania di catturare col registratore le voci e i suoni che lo circondano. In un paesaggio che va da quello urbano della capitale e delle remote cittadine di provincia sino al grigio del deserto, con l’accompagnamento sonoro della televisione sempre accesa, del ronzio dei videogiochi e della musica di Pat Metheny, il protagonista osserva, ricorda, ascolta più che parlare, e la sua narrazione si spezza in frasi brevissime e frammenti malinconici che sembrano emergere dalla camanchaca per lasciarci intravedere spezzoni di realtà nascoste (la scomparsa di uno zio di cui si parla solo per allusioni, tradimenti, un incesto appena accennato ma inequivocabile), ombre di delitti e misteri “esemplari”, fatti di cronaca legati al passato recente del Cile.

Ed è in questo modo che il testo ci consente di vedere dietro lo specchio e, come sottolinea Vincenzo Barca nella sua intelligente postfazione, ci rimanda a “violenze di dominio pubblico che riverberano sulle storie private, evocando la brutalità di un periodo tutt’ora innominabile” le cui nebbie si possono dissipare soltanto “nominando il passato per superarlo”.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel giugno del 2012