Diabolicamente difficile
Non c’è da stupirsi se un maestro come il messicano Daniel Sada (1953-2011),
autore di una vasta opera narrativa – otto antologie di racconti e undici romanzi
– sviluppata nel corso dell’ultimo trentennio, viene tradotto in italiano solo due
anni dopo la sua morte, avvenuta a Città del Messico nello stesso giorno in cui
gli veniva assegnato il Premio Nacional de Ciencias y Artes. Ormai considerato
un classico nel suo paese, immensamente lodato dalla critica latinoamericana e spagnola,
come da autori quali Fuentes, Poniatowska, Mutis e Roberto Bolaño (lettore finissimo,
quando non si lasciava vincere da antipatie personali o da eccessivi entusiasmi
amicali), Sada è infatti uno scrittore impegnativo, molto lontano dal peraltro inesistente
gusto medio cui si rifà ormai il mercato editoriale e dalla richiesta di immediata,
facile leggibilità che ne consegue; né va sottovalutata la “sfida titanica” (la
definizione è del più esigente tra i critici messicani, Christopher Domínguez Michael)
che rappresenta per il traduttore la sua scrittura inconfondibile, basata su una
lingua lavoratissima dalla sintassi spesso frammentata, su un vocabolario sovrabbondante
in cui neologismi d’invenzione si mescolano a espressioni colloquiali e locali in
un colto gioco di rimandi e trasformazioni, e infine sul ritmo e la cadenza della
frase, in cui si intravedono gli ottonari dei corridos, della rancheras
e della poesia popolare.
Una proposta estetica radicale e ben definita, in cui confluiscono la lettura
dei classici (“La Divina Commedia per me è un modello. Volevo scrivere così”, confessa
Sada in un’intervista), l’influenza del Secolo d’Oro spagnolo e della tradizione
picaresca e un confronto continuo con le voci della strada, nonché la fluviale dilatazione
di vicende in apparenza minime, che però riescono a trasformarsi nell’esplorazione
non solo di un paese e della sua storia dolente, ma anche “dell’essenza dell’uomo”,
come osserva Alvaro Mutis riferendosi a quella che viene considerata l’opera capitale
dello scrittore messicano, ovvero Porque parece mentira la verdad nunca se sabe,
inarrivabile romanzo su una frode elettorale compiuta in un paesino di frontiera.
Le sue 650 pagine, popolate da oltre 90 personaggi, sono fatte di infiniti episodi
all’apparenza indipendenti ma che si inseriscono in un disegno complessivo, componendo
un mosaico fantasmagorico che non ha bisogno di ricorrere ai trucchetti del realismo
magico né a quelli del “crasso realismo” tipico, secondo Sada, di buona parte della
letteratura messicana, influenzata prima dal naturalismo francese e poi da quello
nordamericano. È soprattutto a questo romanzo “diabolicamente difficile” (così lo
definisce Domínguez Michael) che si deve la fama di Sada, ma tutta la sua opera
– dall’ancora acerbo e tuttavia notevolissimo Lampa vida (1980) fino al postumo
El lenguaje del juego (2012), sull’ineluttabile rovina di un paesetto di
frontiera e di una famiglia, inghiottiti dal narcotraffico – testimonia la capacità
di produrre opere differenti che non si è mai tentati di definire “minori”.
La magnifica responsabilità di presentare per la prima volta al pubblico italiano
questo autore di cui non si può ignorare l’esistenza se l’è appena presa l’editore
Del Vecchio, che ha affidato a Carlo Alberto Montalto il monumentale compito – assolto
benissimo, va detto – di tradurre uno dei romanzi più importanti di Sada, ovvero
Quasi mai (vincitore del premio Herralde nel 2008 e uscito presso Anagrama
l’anno seguente), in cui i temi portanti del denaro e del sesso si incarnano in
personaggi “senza qualità” impigliati in una trama che potrebbe rimandare al cinema
popolare e sentimentale messicano degli anni ’40 o ’50, ma che finisce per disegnare,
invece, il ritratto spietato della provincia norteña negli anni del secondo
dopoguerra: una gabbia le cui sbarre sono la corruzione della vita pubblica e il
trionfo delle apparenze, un cattolicesimo superstizioso e asfissiante, un machismo
senza scampo che divide le donne in vergini e puttane, un mondo femminile che custodisce
e tramanda la morale ufficiale e il cui ovvio risvolto è l’esistenza di un vasto
universo postribolare.
Demetrio Sordo, il protagonista, è un giovane agronomo che vive e lavora nel
nord del Messico (proprio nella stessa zona desertica e di frontiera in cui Sada
è nato e attorno alla quale è cresciuta una produzione letteraria ed artistica tra
le più interessanti del continente), e che trova nel sesso a pagamento l’antidoto
a una vita convenzionale e noiosa: un lavoro che non gli piace, l’alloggio in una
desolata pensione, la solitudine, la consapevolezza che il suo destino è, nonostante
il suo vago desiderio di rivolta, quello già disegnato dal padre defunto e dalla
madre invadente. Ma agli amplessi quotidiani e costosi con la prostituta Mireya,
ossessione felice che neutralizza la routine, si sovrappone l’amore per la casta,
purissima Renata dagli occhi verdi, la cui conquista presuppone non solo il matrimonio,
ma anche il superamento di una serie di prove che includono l’assoluta astinenza
(il primo bacio non arriverà che al secondo giorno di matrimonio), lunghe attese,
penitenze assortite, insomma il rispetto di un codice quasi medioevale di amor cortese
che alla fine del percorso offre la copula istituzionale e benedetta con “una puttana
di tutt’altro tipo, emblematico in quanto legale”. Abbandonata crudelmente Mireya,
che crede incinta, Demetrio si imbarca così in una sorta di viaggio iniziatico che
include un simbolico rientro nel ventre materno (deve infatti rimettersi, che lo
voglia o no, nelle mani possessive e ansiose della madre e della zia) e il cui approdo
non è solo la vita coniugale, ma la crescita sociale ed economica, una maturità
cinica e redditizia (“Avrebbe voluto mettersi quanto prima in combutta con dei politici,
in modo da poter rubare (buono buono) protetto dalla legge…”), insomma un posto
nel mondo. E parallelamente al suo va-e-vieni emozionale, sessuale e lavorativo,
si dipana quello del denaro accumulato, perduto, rubato, nascosto, investito, spostato
da un antieroe che per i “soldi a palate” nutre un trasporto affine a quello per
il “puro sollievo” procurato dal corpo femminile.
Continuamente sollecitato e interpellato dalla voce di un narratore che riepiloga,
spiega, anticipa, il lettore si trova dunque alle prese con quella che può sembrare
una banale storia di provincia ambientata nel profondo Messico durante la presidenza
di Miguel Alemán e che invece è molto di più: un romanzo ironicamente e apertamente
erotico, fatto di scatole cinesi che contengono ciascuna un inferno in miniatura;
un romanzo esilarante e picaresco sul moralismo immorale di una piccola borghesia
nascente e sulla sua inverosimile e codificata ipocrisia; un romanzo messicano sino
allo spasimo che tuttavia si propone come universale grazie alla sua inequivocabile
natura di Bildungsroman; e infine un romanzo dalla coloritura storica che evoca
una Frontera abitata solo dalla polvere e dal silenzio, priva di strade e
di luce elettrica, diversissima da quella oggi devastata dal parossismo sanguinario
imposto dal narcotraffico, ma la cui vita quotidiana è comunque intessuta di corruzione
e violenza, terribile presagio del futuro. E a sostenere tutto questo c’è una prosa
di magistrale peculiarità, le cui sperimentazioni vengono troppo spesso e troppo
sbrigativamente considerate come un’espressione del barroco o del neobarroco
latinoamericano (quello, per intendersi, praticato da Carpentier, da Lezama Lima
o da Severo Sarduy, scrittori caraibici con altre radici, altre estetiche, un altro
registro linguistico), oppure dell’avanguardia, nonostante Sada abbia dichiarato
di non considerarsi un autore “che abbia a che vedere con avanguardie o mode”. Inclassificabile
e impossibile da collocare in un canone di qualsiasi genere, l’opera di questo scrittore
“lento” e dalla scrittura minuziosa rappresenta insomma una sfida ammaliante per
la critica e per i lettori, che dovranno prendersi il loro tempo per sondare la
profondità delle correnti da cui è attraversata, ma che a ogni pagina si troveranno
a tu per tu con la ricchezza inesauribile di un autore scrittore capace di correre
rischi estremi pur di seguire la strada della propria eccezionalità.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel gennaio del 2014