Storie crudeli
Hanno più o meno la stessa età, parlano la stessa lingua, vengono da due paesi
che hanno sopportato entrambi il peso della dittatura, e si presentano (non per
la prima volta) ai lettori italiani con due romanzi usciti quasi contemporaneamente:
José Ovejero (Madrid 1958) e Alan Pauls (Buenos Aires 1959) hanno dunque alcune
cose in comune, anche se le differenze sono profonde e subito visibili. Ma, al di
là delle coincidenze, è soprattutto in quanto autori di “storie crudeli” che viene
voglia di accostarli e di osservare da vicino due scritture diversamente inquietanti.
Ovejero, scrittore prolifico di cui possiamo misurare la versatilità grazie
ai romanzi e ai racconti via via pubblicati da Voland a partire dal 2003, sin dal
suo debutto si è rivelato un narratore attento alla rappresentazione della contemporaneità
(anche se Nostalgia dell’eroe, sospeso tra la Spagna della guerra civile
e la Cuba rivoluzionaria, è soprattutto una esplorazione del passato) e dei suoi
aspetti più contradditori e amari, raccontati con tranquilla cattiveria.
Il suo ultimo libro, Non succede mai nulla (traduzione di Luigi Scaffidi,
come sempre edito da Voland) non fa eccezione, perché sotto il “cappello” di un
titolo allusivo e ironico ci viene narrata una storia composta da tre fili intrecciati,
che corrispondono a mondi incomunicanti: la quotidianità annoiata e noiosamente
trasgressiva di una coppia benestante, con una bambina piccola e una bella casa;
le giornate fatte di paure, bugie e segreti di una giovane cameriera ecuadoriana
arrivata clandestinamente in Europa, che deve pagare ai trafficanti il prezzo del
viaggio da un continente all’altro; la perfidia di un adolescente disadattato e
in apparenza mite (in realtà una sorta di stralunato “quinto figlio” che si aggira
per il web) capace di mettere in piedi una beffa atroce.
Ritratto di una borghesia incapace di trovare o di inventarsi un’identità, alla
prese con quel tanto di “perturbante” introdotto nella sua esistenza dal corpo manipolabile
e indifeso di una ragazza che sembra rappresentare la cattiva coscienza con cui
riceviamo, respingiamo, usiamo gli immigrati, Non succede mai nulla è un
romanzo indubbiamente politico, ma non a tesi: sua prima ragion d’essere è il narrare;
ed è lo svolgersi del racconto a metterci di fronte allo specchio e a farci rabbrividire:
siamo proprio noi le figure imperdonabili, disperate, vagamente ridicole, che vediamo
affiorare da paesaggi urbani e interni borghesi?
Anche Storia del pianto di Alan Pauls (traduzione di Maria Nicola, Fazi)
nasce nel chiuso di una famiglia borghese e ormai spezzata (i genitori si sono separati
e la madre vive in una solitudine affollata di creme per il viso e rituali estetici),
ma il suo protagonista incontrastato è un bambino di quattro anni che vedremo evolversi
in un ragazzo ingenuamente votato ad avide letture marxiste, nella cupa Argentina
di Videla. È alla sua memoria caotica ma limpida che è dedicato il libro, felicemente
estraneo ai luoghi comuni del corrente romanzo d’infanzia, come del resto era lecito
aspettarsi dall’autore di opere importanti e insolite come Il passato (Feltrinelli
2007), che, oltre a vincere il premio Herralde, ha avuto un grande e meritato successo
non solo nel proprio paese.
Anche questo, come quello di Ovejero, è un romanzo “crudele”, ma in un modo
sottile e malinconico: gli occhi di un bambino vestito da Superman, che correndo
per l’appartamento infrange di slancio la vetrata del balcone, colgono frammenti
di realtà che, accostati, non combaciano quasi mai. Immagini, nitidi dettagli (il
polpo a mosaico sul fondo della piscina, un paio di baffetti mossi dal respiro),
sensazioni, volti: la madre infelicissima, i nonni detestabili, un “padre della
domenica” con cui riesce a comunicare solo attraverso le lacrime, un vicino militare
che lo lascia entrare insieme al suo triciclo in una casa gelida e provvisoria,
insomma adulti incomprensibili che gli raccontano i fatti propri senza pudore, recriminano,
si lamentano e naturalmente piangono (perché, dice Pauls, “la cultura argentina
è lacrimosissima; dal tango fino al programma di Maradona in TV, che è stato un
lacrimatoio professionale, c’è una cultura del pianto assai forte, non solo in senso
letterale, ma nel senso del lamentarsi, della falsa emozione…”).
Sarà molto più tardi, alle soglie di un’adolescenza pronta a divorare la stampa
montonera come un romanzo e a piangere davanti alle immagini della Moneda
bombardata dagli aerei di Pinochet, che quei frammenti si ricomporranno di colpo,
mostrandogli un passato che l’eccessiva vicinanza, più della giovane età, gli aveva
impedito di decifrare. E così scoprirà di aver vissuto gomito a gomito con la guerriglia
che adesso tanto ammira, condensata in una figura misteriosa, distante, non riconosciuta.
Un’agnizione dolorosa che conclude una sorta di educazione politico-sentimentale
impartita più dal desiderio di trovare un oggetto degno di passione, che da patetici
pedagoghi come suo padre, o come il cantante di protesta al cui concerto (quasi
un rito consolatorio) gli tocca assistere.
Tra le tante angolazioni possibili per contemplare i feroci anni ’70 che lo
hanno visto crescere, Pauls ne ha scelto una inedita, mettendo sul tavolo una molteplicità
di temi – inclusa una sotterranea riflessione sull’essere “di sinistra” – e organizzandoli
come una partitura musicale che non semplifica la vita al lettore: e di questo,
in tempi in cui la letteratura non è più forma ma format, bisogna ringraziarlo,
perché la sua scrittura avvolgente, appassionata, ricca di immagini e di sfumature,
offre un’opzione entusiasmante a chi vuole essere stupito, sfidato, spiazzato dalla
pagina scritta.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel marzo 2010