Mercè Rodoreda |
I giardini di Mercè
Un giardino, piccolo o grande che sia, con alberi, rosai, astri, nasturzi, gelsomini,
nardi e gigli: quanti ne incontra il lettore nei romanzi e nei racconti di Mercè
Rodoreda, la più grande scrittrice catalana del ’900? Difficile contarli, visto
che quello spazio fiorito, raccolto intorno a case quasi mai felici, è per l’autrice
un luogo ineludibile, un oggetto di rimpianto che si confonde con la nostalgia dell’infanzia:
profumato dal glicine e dalle violette quello della protagonista di Aloma
(pubblicato nel 1938, e prima opera che l’autrice riconosce come sua, dopo aver
rinnegato le precedenti); fiammeggiante di bouganville e di rose rosse quello di
Isabel e Maria, romanzo inconcluso e uscito postumo nel 1991; misterioso,
decaduto e popolato di spettri, “l’idea pura del giardino di tutti i giardini”,
quello di Lo specchio rotto, l’opera più complessa e ambiziosa, apparsa nel
1974; sognante e segreto quello che circonda la casetta di Via delle Camelie
(1966).
E poi i giardini fantastici di Viaggi e fiori (1980), il magico ambiente
naturale dell’ermetico e incompiuto La morte e la primavera – uscito dopo
la morte dell’autrice, nel 1988 –, e il ragazzo Adrià, protagonista di Quanta,
quanta guerra (1980), che una notte si “pianta” nel giardinetto di casa, scavando
una buca e coprendosi di terra fino alle ginocchia, col desiderio che gli crescano
le radici per “essere tutto rami e foglie”.
Ossessionata dal mondo vegetale e dalla sua stretta relazione con un’umanità
industriosa che pota, zappa, pianta talee, semina, lega steli troppo fragili e crea
paesaggi in miniatura meravigliosamente artificiali, la Rodoreda fu lei stessa una
giardiniera devota, di grande esperienza e abilità. Cresciuta in un quartiere piccolo
borghese di Barcellona, San Gervasi, dove suo nonno possedeva una villetta con un
grande giardino in cui aveva eretto un bizzarro monumento-fontana a un poeta amico,
imparò ad amare i fiori di quell’eden circoscritto e recintato, con la passione
di una bambina che “vive di meraviglie”, come scrisse di se stessa nel prologo a
uno dei suoi romanzi. In un libro fotografico intitolato De foc i de seda. Album
biografic de Mercè Rodoreda (Institut d’Estudis Catalans, 2006) e curato da
Maria Nadal, che racconta la sua vita in centinaia di immagini, la si può vedere
appunto in quel giardino, poi cancellato dalla speculazione edilizia. E nelle ultime
pagine, come a chiudere un cerchio, altre foto la ritraggono ormai anziana nel grande
giardino che circondava la casa di Romanyat de la Selva, vicino a Barcellona, dove
si era ritirata a scrivere e a coltivare fiori fino al giorno della sua morte, nell’aprile
del 1989.
Ma tra quei due giardini, tra infanzia e vecchiaia, c’erano stati lunghi anni
desolati: solo una pianta di lillà in cortile o un davanzale con qualche vaso nelle
case di Parigi, Bordeaux, Ginevra, le città della sua fuga e del suo esilio dopo
la vittoria di Franco. Fu allora che, “vincolata ai fiori, senza fiori per anni,
sentii la necessità di parlare di fiori, e che il mio protagonista fosse un giardiniere”,
scrive la Rodoreda nel prologo a Lo specchio rotto. È così che nacque Il
giardino sul mare, il primo romanzo scritto dopo Aloma e Il grande
marasma della guerra civile, ora riproposto da La Nuova Frontiera nella elegante
traduzione di Giuseppe Tavani. Un libro relativamente insolito nella produzione
dell’autrice, perché la voce narrante è maschile (un’eccezione che si ripeterà in
Quanta, quanta guerra) e l’ambientazione lontana da quella Barcellona che
fa da sfondo a buona parte della sua opera.
A parte questo, il romanzo possiede molte delle caratteristiche che hanno indotto
milioni di lettori ad amare l’autrice di La piazza del Diamante (la Nuova
Frontiera, 2008): una scrittura tersa, apparentemente semplice e spontanea ma in
realtà frutto di infinite riscritture e di una lunga ricerca di stile (“Ogni romanzo
è convenzionale. La grazia consiste nel fare in modo che non lo sembri”), personaggi
così vivi da poterli toccare e dai quali il lettore, come l’autrice a lavoro concluso,
quasi non riesce a staccarsi, e infine un uso sapiente del monologo interiore, tecnica
privilegiata dalla Rodoreda che pure ne usò altre con grande abilità in La morte
e la primavera o in Isabel e Maria.
Raccontata da un vecchio giardiniere, la storia è quella di una ricca famiglia
borghese di Barcellona che torna ogni estate nel piccolo paese sul mare dove possiede
una villa circondata da un giardino immenso, mutevole e pieno di voci: non solo
quelle dei “signorini” e dei loro ospiti, ma anche quelle dei tigli le cui foglie
“tremolano e ascoltano”. Storia, soprattutto, di un amore infelice, di una passione
irrimediabile e irragionevole, filtrata attraverso lo sguardo di un uomo silenzioso
che, come tutti i giardinieri, “è diverso dalle altre persone perché ha a che fare
con i fiori”, apparentemente ingenuo (un tratto comune a molti personaggi della
Rodoreda) ma in realtà investito di una saggezza che lo aiuta a intuire la tragedia
imminente.
Anche se meno tragico e complesso di una figura come Colometa, la protagonista
di La piazza del Diamante, il giardiniere silenzioso in qualche modo la ricorda
per via di una semplicità rassegnata e consapevole, e intorno a lui, che vive coltivando
memorie e modeste abitudini scandite dai tempi e dalle necessità del giardino, c’è
una folla di domestici pettegoli, curiosi, perfettamente disegnati, che annunciano
la magistrale Crisantema di Isabel e Lucia, o di silhouettes borghesi ostinatamente
infelici come quelle di Lo specchio rotto.
Non bisogna credere, però, di trovarsi davanti a un testo minore, semplice prova
generale di opere straordinarie come quelle degli anni successivi: Il giardino
sul mare, infatti, è tra i romanzi più intimi e toccanti della Rodoreda, in
cui l’autrice sembra trovare nella scrittura conforto, consolazione e autentico
piacere, per poi restituirli a chi legge. E se “un romanzo è un atto magico”, come
lei sosteneva, in questo, così infinitamente attento al dettaglio e alle sfumature,
la magia si è compiuta per intero.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel gennaio 2011