sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Mercè Rodoreda




Mercè Rodoreda



I giardini di Mercè 

Un giardino, piccolo o grande che sia, con alberi, rosai, astri, nasturzi, gelsomini, nardi e gigli: quanti ne incontra il lettore nei romanzi e nei racconti di Mercè Rodoreda, la più grande scrittrice catalana del ’900? Difficile contarli, visto che quello spazio fiorito, raccolto intorno a case quasi mai felici, è per l’autrice un luogo ineludibile, un oggetto di rimpianto che si confonde con la nostalgia dell’infanzia: profumato dal glicine e dalle violette quello della protagonista di Aloma (pubblicato nel 1938, e prima opera che l’autrice riconosce come sua, dopo aver rinnegato le precedenti); fiammeggiante di bouganville e di rose rosse quello di Isabel e Maria, romanzo inconcluso e uscito postumo nel 1991; misterioso, decaduto e popolato di spettri, “l’idea pura del giardino di tutti i giardini”, quello di Lo specchio rotto, l’opera più complessa e ambiziosa, apparsa nel 1974; sognante e segreto quello che circonda la casetta di Via delle Camelie (1966).

E poi i giardini fantastici di Viaggi e fiori (1980), il magico ambiente naturale dell’ermetico e incompiuto La morte e la primavera – uscito dopo la morte dell’autrice, nel 1988 –, e il ragazzo Adrià, protagonista di Quanta, quanta guerra (1980), che una notte si “pianta” nel giardinetto di casa, scavando una buca e coprendosi di terra fino alle ginocchia, col desiderio che gli crescano le radici per “essere tutto rami e foglie”.

Ossessionata dal mondo vegetale e dalla sua stretta relazione con un’umanità industriosa che pota, zappa, pianta talee, semina, lega steli troppo fragili e crea paesaggi in miniatura meravigliosamente artificiali, la Rodoreda fu lei stessa una giardiniera devota, di grande esperienza e abilità. Cresciuta in un quartiere piccolo borghese di Barcellona, San Gervasi, dove suo nonno possedeva una villetta con un grande giardino in cui aveva eretto un bizzarro monumento-fontana a un poeta amico, imparò ad amare i fiori di quell’eden circoscritto e recintato, con la passione di una bambina che “vive di meraviglie”, come scrisse di se stessa nel prologo a uno dei suoi romanzi. In un libro fotografico intitolato De foc i de seda. Album biografic de Mercè Rodoreda (Institut d’Estudis Catalans, 2006) e curato da Maria Nadal, che racconta la sua vita in centinaia di immagini, la si può vedere appunto in quel giardino, poi cancellato dalla speculazione edilizia. E nelle ultime pagine, come a chiudere un cerchio, altre foto la ritraggono ormai anziana nel grande giardino che circondava la casa di Romanyat de la Selva, vicino a Barcellona, dove si era ritirata a scrivere e a coltivare fiori fino al giorno della sua morte, nell’aprile del 1989.

Ma tra quei due giardini, tra infanzia e vecchiaia, c’erano stati lunghi anni desolati: solo una pianta di lillà in cortile o un davanzale con qualche vaso nelle case di Parigi, Bordeaux, Ginevra, le città della sua fuga e del suo esilio dopo la vittoria di Franco. Fu allora che, “vincolata ai fiori, senza fiori per anni, sentii la necessità di parlare di fiori, e che il mio protagonista fosse un giardiniere”, scrive la Rodoreda nel prologo a Lo specchio rotto. È così che nacque Il giardino sul mare, il primo romanzo scritto dopo Aloma e Il grande marasma della guerra civile, ora riproposto da La Nuova Frontiera nella elegante traduzione di Giuseppe Tavani. Un libro relativamente insolito nella produzione dell’autrice, perché la voce narrante è maschile (un’eccezione che si ripeterà in Quanta, quanta guerra) e l’ambientazione lontana da quella Barcellona che fa da sfondo a buona parte della sua opera.

A parte questo, il romanzo possiede molte delle caratteristiche che hanno indotto milioni di lettori ad amare l’autrice di La piazza del Diamante (la Nuova Frontiera, 2008): una scrittura tersa, apparentemente semplice e spontanea ma in realtà frutto di infinite riscritture e di una lunga ricerca di stile (“Ogni romanzo è convenzionale. La grazia consiste nel fare in modo che non lo sembri”), personaggi così vivi da poterli toccare e dai quali il lettore, come l’autrice a lavoro concluso, quasi non riesce a staccarsi, e infine un uso sapiente del monologo interiore, tecnica privilegiata dalla Rodoreda che pure ne usò altre con grande abilità in La morte e la primavera o in Isabel e Maria.

Raccontata da un vecchio giardiniere, la storia è quella di una ricca famiglia borghese di Barcellona che torna ogni estate nel piccolo paese sul mare dove possiede una villa circondata da un giardino immenso, mutevole e pieno di voci: non solo quelle dei “signorini” e dei loro ospiti, ma anche quelle dei tigli le cui foglie “tremolano e ascoltano”. Storia, soprattutto, di un amore infelice, di una passione irrimediabile e irragionevole, filtrata attraverso lo sguardo di un uomo silenzioso che, come tutti i giardinieri, “è diverso dalle altre persone perché ha a che fare con i fiori”, apparentemente ingenuo (un tratto comune a molti personaggi della Rodoreda) ma in realtà investito di una saggezza che lo aiuta a intuire la tragedia imminente.

Anche se meno tragico e complesso di una figura come Colometa, la protagonista di La piazza del Diamante, il giardiniere silenzioso in qualche modo la ricorda per via di una semplicità rassegnata e consapevole, e intorno a lui, che vive coltivando memorie e modeste abitudini scandite dai tempi e dalle necessità del giardino, c’è una folla di domestici pettegoli, curiosi, perfettamente disegnati, che annunciano la magistrale Crisantema di Isabel e Lucia, o di silhouettes borghesi ostinatamente infelici come quelle di Lo specchio rotto.

Non bisogna credere, però, di trovarsi davanti a un testo minore, semplice prova generale di opere straordinarie come quelle degli anni successivi: Il giardino sul mare, infatti, è tra i romanzi più intimi e toccanti della Rodoreda, in cui l’autrice sembra trovare nella scrittura conforto, consolazione e autentico piacere, per poi restituirli a chi legge. E se “un romanzo è un atto magico”, come lei sosteneva, in questo, così infinitamente attento al dettaglio e alle sfumature, la magia si è compiuta per intero.

  

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel gennaio 2011