Tre romanzetti borghesi
Narramerica: così si chiama la collana creata dall'Istituto Italo-Latino Americano insieme alla casa editrice Fahrenheit 45, con lo scopo di far conoscere ai lettori italiani le tante e diverse voci di una letteratura che coniuga un passato straordinario a un presente insolitamente ricco, specie se lo si paragona a quello spesso stanco, fragile e opaco di altre zone del mondo. L'ultimo frutto di questa collaborazione tra un piccolo editore e un'istituzione che si propone come ponte fra la nostra realtà culturale e quella latinoamericana, è l'intelligente recupero di “Tre romanzetti borghesi” (tre romanzi brevi di José Donoso, pubblicati per la prima volta nel 1973) in una edizione con testo a fronte che permette di apprezzare l'ottimo lavoro di Teresa Cirillo Sirri, alle prese con un testo che, come tutti quelli dell'autore cileno, appare così scorrevole e “naturale” da mascherare le considerevoli difficoltà con cui il suo traduttore deve misurarsi.
“Chattanooga Choochoo”, “Atomo verde numero cinque” e “Gaspard de la nuit”, i testi che compongono il trittico, fanno parte di quelli che si potrebbero chiamare i “romanzi catalani” di Donoso, visto che, come El jardìn de al lado, sono ambientati nella Barcellona dove lo scrittore trascorse l'euforico periodo del Boom, o, come nel caso del ritrovato Lagartija sin cola, hanno come sfondo un borgo medioevale della Catalogna contadina identico a Calaceite, il paesetto in cui la famiglia Donoso visse per diversi anni. La critica e spesso feroce rappresentazione di quella che il critico e scrittore Rafael Gumucio definisce, in uno scritto su due dei romanzi più “cileni” di Donoso (Este domingo e El lugar sin limites), “una società in cui la disuguaglianza non è un caso ma un modo di essere e di vedere il mondo”, nei tre romanzetti lascia il posto a un ritratto caustico e spesso ironico della buona borghesia catalana, intendendo per tale non quella solidamente bottegaia, ma un'altra, più mondana e intellettuale, che vive in splendide case moderniste, compera e addirittura produce opere d'arte, e dà feste che sembrano annunciare, alla vigilia della morte di Franco, una futura movida.
Tutti i personaggi dei tre romanzetti (il diminutivo
allude non solo alla brevità, ma anche alla ricerca di leggerezza, di una pausa
tra la complessa e faticosa gestazione di El obsceno pajaro de la noche
e l'impegnativa stesura di Casa de campo) sono protagonisti di almeno
una storia e comprimari in quelle seguenti, ma formano comunque coppie che
forse non si amano più e che sembrano fondate sul bisogno di organizzare
convenientemente la propria vita quanto sull’esistenza di molti, moltissimi
segreti: quelli delle mogli che si
trasmettono l'arte di “smontare” i propri uomini per riporli in una valigetta e
rimontarli quando si saranno riposate dalla loro esigente presenza, o quelli
dei mariti che devono far fronte alla misteriosa sparizione di oggetti e arredi
preziosi, di interi pezzi di vita e perfino di parti del corpo: braccia
temporaneamente mancanti, volti senza lineamenti, genitali maschili scomparsi e sostituiti da un ventre liscio
come quello di un bambolotto.
Con levità, con sapienza, Donoso demolisce il
matrimonio e i rapporti di coppia - ingannevolmente confortanti in “Chattanooga
Choochoo” o densi di un furore distruttivo e quasi omicida in “Atomo verde
numero cinque” -, lancia un ammonimento sulla fragilità di ruoli e identità, e,
partendo da rappresentazioni del tutto
realistiche (la mappa della Barcellona donosiana è riconoscibile in ogni dettaglio,
la vita domestica e la pretenziosità dei ricchi borghesi sono perfettamente
attendibili), attraverso piccole e progressive pennellate ci fa capire che
invece no, siamo davanti a “reale” fluido e artificioso, pronto a scivolare in
una insensatezza crudele.
Se questa lettura, che vede in “Tre romanzetti
borghesi” una satira corrosiva e imparentata col surrealismo, è probabilmente
la più immediata e fornisce al lettore parecchie occasioni di divertimento (e
anche, per alcuni, di salutare choc da riconoscimento, perché oltre che di una
classe sociale e di una città, i romanzi sono anche il ritratto di un'epoca), è
inevitabile sovrapporgliene un'altra, quella che segnala la presenza delle
ossessioni e dei temi tipici di tutta l'opera di Donoso, cioè dell'autentico fil rouge che collega l'uno all'altro,
testi connotati dalla ricerca e dalla sperimentazione di tecniche narrative e
linguaggi nuovi, tipica di uno scrittore che non smise mai di cercarsi ed evitò
con ogni cura di costruirsi una “maniera”.
Anche nei romanzetti vediamo dunque riaffacciarsi la
maschera, il travestimento che occulta una verità frammentata e instabile, il
corpo deforme e mostruoso (soprattutto quello femminile, obbligato alla
bellezza ma percepito come inquietante e minaccioso, di volta in volta bambola
rotta, animale predatore, oggetto che invano si tenta di possedere e
sottomettere), il laccio delle convenzioni, ancor più soffocanti quando si
propongono come trasgressione obbligatoria e codificata, e dalla quali solo
l'arte e la letteratura possono aiutarci a evadere, come succede nel caso di
Mauricio, l'adolescente protagonista di “Gaspard de la nuit”, il più bello e
perturbante dei tre romanzi.
Bravo ragazzo cui viene richiesto prima di seguire
ciecamente le norme dettate da una famiglia paterna tradizionalista fino al
ridicolo, e poi quelle della madre, donna “liberata” che le regole ci tiene a
infrangerle tutte, Mauricio è in cerca di qualcosa che non ha nulla a che fare
con quanto gli viene imposto dall'esterno; e sarà la musica che fischietta
incessantemente, il Gaspard de la nuit di Ravel, a permettergli di
scambiare la propria vita con quella di un giovane vagabondo che gli assomiglia
e di allontanarsi verso luoghi che non conosce ancora, senza mai fermarsi per
non dover acquistare un'identità agli occhi degli altri. E proprio in questo
andare “oltre, verso altre cose”, in questa figura di adolescente misteriosa e
quasi sacra, c'è tutto José Donoso, tutta la sua storia di uomo e di scrittore
proteso verso ciò che si nasconde dietro il tupido
velo (ossia lo spesso sipario della realtà) e che deve pur essere narrato.
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nel novembre del 2012.