Copi
Le Ceneri di Copi
“Il giorno dopo la cremazione di Copi, noi che eravamo i suoi tre
amici più stretti, e cioè io, Michel Cressole e Guy Hocquenghem, siamo andati a
casa di China. Sul tavolo c’era la scatola con la marijuana. La madre era arrivata
da poco e parlava male il francese. E aveva assistito Copi in ospedale, non
aveva dormito, doveva essere molto stanca. Michel, che era il più audace, le ha
chiesto: ”China, possiamo farci una pipa di hasch?”. ”Va bene”, ha risposto lei.
Così abbiamo fumato. Poi Michel ha preso la scatola e ha detto: ”Le aveva messe
qui dentro, le ceneri di Copi?”. E lei gli ha risposto di sì. Tempo dopo,
Michel mi ha detto: “Ti ricordi quando ci siamo fumati le ceneri di Copi?”. Io
non mi ricordavo, e ancora oggi non ne sono sicuro”.
Raccolto da Maria Moreno nel corso di un’intervista realizzata nel
2006 per il quotidiano Pagina/12, l’aneddoto viene dalla viva voce di Raúl
Escari, eccentrico intellettuale argentino vissuto per più di trent’anni a
Parigi, e tutto lascia pensare che sia falso: non solo Georgina Botana, detta
“la China”, parlava bene il francese, ma non era tipo da fare certe confusioni,
nemmeno di fronte a una perdita tanto atroce. L’episodio, però, è talmente
“alla Copi” da essere ormai parte della leggenda cresciuta intorno a Raúl
Damonte Botana - meglio noto con il misterioso soprannome ricevuto da bambino
- artista geniale che l’AIDS si è
portato via venticinque anni fa. La storia delle ceneri di un amico fumate da
tre intellettuali gay (due dei quali destinati a morire della sua stessa
malattia), in presenza di una madre accondiscendente o distratta, sembra
infatti appartenere all’universo ribollente di Copi, popolato di donne
eternamente sedute, polli e topi lussuriosi, maschi che diventano femmine che
ridiventano maschi, madri degeneri, cadaveri sparsi, assassini seriali, vecchie
prostitute, signore ansiose di comprarsi un collo di pelliccia ancora vivo, il
tutto tra decori e abiti che rimandano al camp, ma anche al fastoso kitsch
della tenuta Don Torcuato, dove il nonno Natalio Botana accumulava incunaboli,
tappeti fatti di pelli di pantera cucite insieme, gabbie con centinaia di
fagiani.
A questo universo mobile, grottesco e sinistramente divertente,
fondato sul travestimento e sul succedersi di catastrofi individuali e
collettive, Copi ha dato corpo grazie a un’immaginazione inesauribile e all’uso
di strumenti diversi: il fumetto, con le sue figure quasi elementari
galleggianti in pagine senza “grate” né riquadri; il teatro, con una dozzina di
pièces travolgenti di cui l’autore era spesso interprete (da leggere, in
proposito, l’eccellente “Il teatro inopportuno di Copi”, a cura di Stefano
Casi, Titivillus 2008); romanzi e racconti oggi riuniti nei due volumi delle Obras completas pubblicati dalla Editorial
Anagrama (il secondo è accompagnato dalla brillante prefazione di Patricio
Pron).
E proprio una simile, felice poliedricità ci induce a rimpiangere il
fatto che su Copi, la cui popolarità è stata a suo tempo enorme non solo in
Francia, ma anche in Italia, sia sceso uno strano silenzio, per lo meno nel
nostro paese.
Non si tratta, va detto, del medesimo silenzio - ora finalmente
interrotto da una serie di studi, di traduzioni e di messe in scena - che gli
ha riservato a lungo l’Argentina, non tanto e non solo per via della sua
“blasfema” raffigurazione di Eva Perón, quanto per diffidenza nei confronti di
un emigrato estraneo a ogni canone nazionale, che scriveva in un’altra lingua e
che si era tentati di inserire nella modesta casella della “letteratura
omosessuale” (qualcosa, cioè, in cui Copi non si sarebbe mai riconosciuto, e
che a conti fatti non esiste). Quello italiano è piuttosto l’oscuramento di
una parte importante del lavoro del fumettista-commediografo-scrittore, visto
che, se da noi il suo magnifico teatro è oggi tra i più rappresentati, sembrano
sommerse e perdute sia la narrativa – in parte pubblicata da Bompiani, Lucarini
ed ES – sia i fumetti e i disegni proposti prima dalla Milano Libri di Giovanni
Gandini, che nel 1967 prese a pubblicarli regolarmente su Linus nella
traduzione di Oreste del Buono, e poi dalla Mondadori.
Vengono ignorate o cancellate, in questo modo, le tante soglie che
consentono di passare dall’una all’altra forma in cui l’opera dell’autore
argentino si articola, le tante e diverse modulazioni della sua voce. Se è
vero, per esempio, che da molte parti è stata sottolineata l’indubbia
teatralità dei fumetti di Copi e dei loro dialoghi surreali, sottrarli al
lettore o restituirglieli esclusivamente attraverso un adattamento per il
palcoscenico significa disconoscere la specificità di una narrazione visiva
originalissima, che oggi come ieri sa polverizzare le attese e le certezze
piccolo-borghesi. Quanto alla narrativa, le due raccolte di racconti (Une langouste pour deux e Virginia Woolf a encore frappé) e i
cinque romanzi (L’uruguayen, Le bal des
folles, La cité des rats, La guerre des pedés e La internacional argentina,
l’unico scritto in spagnolo) ci confermano che l’opera di Copi è in realtà
fatta di vasi comunicanti, ma sono anche l’esempio di come l’autore sappia
calarsi in tipi diversi di scrittura e adattarli nel modo migliore ai
personaggi e alle storie che vuole raccontare, alle immagini che intende
evocare.
Imprescindibile per chi voglia capire quale influenza ha esercitato
questo stravagante fuoruscito sulla letteratura argentina contemporanea, da
César Aira (che attraverso l’elogio della sua presunta “imperfezione” svela e
conferma la propria poetica) ad Alberto Laiseca, fino ad autori giovani come il
Daniel Guebel di Derrumbe o il Felix Bruzzone di Los Topos, la narrativa di
Copi porta al parossismo le caratteristiche del suo teatro: poiché non può
mostrare direttamente e concretamente corpi, travestimenti e mutazioni,
enfatizza l’eccesso, accumula un’incalcolabile quantità di sorprese ed eventi,
parodizza i diversi generi letterari e crea una rigorosa impalcatura per
sostenere la verosimiglianza di un mondo in cui le identità (e non solo quelle
di genere) sfumano una nell’altra, e il tempo e lo spazio non rispondono alle
leggi consuete. La scrittura acquista
così una rapidità bruciante, cui si arriva partendo dalla sostanziale
immobilità del fumetto e dal vuoto dei suoi fondali bianchi, e passando
attraverso il moto ben regolato della scena teatrale.
Quale che sia la forma scelta, come ci fa notare César Aira (Copi,
Editorial Beatriz Viterbo 1991), Copi non manca di privilegiare il racconto e
crea intrecci segnati da una violenza stilizzata fino alla comicità, dalla
contraddizione, dal paradosso, dal gusto per il mostruoso e l’assurdo, fino
a costruire quella che il critico
argentino Daniel Link definisce la proposta “di un’etica e di un’estetica
trans: transessuale, transnazionale, translinguistica”. Un sovvertimento
grandioso, che, continua Link, mette in discussione categorie consolidate
(maschile/femminile, uomo/animale, padrone/servo, sacro/profano) e postula la
nascita di nuovi soggetti sociali, fuori da ogni classificazione. Non a caso il
più celebre tra i suoi personaggi teatrali venne affidato nel 1970 a un attore come Facundo Bo, interprete di
un’Eva Perón vigorosa e sboccata che si inventa ammalata di cancro e fugge
dopo aver ucciso una sostituta abbigliata e truccata come lei, perché il popolo
abbia un corpo da venerare. La vita invece della morte, un uomo al posto di una
donna: una scelta che fu considerata dai peronisti un affronto nato dalla
storia politica della famiglia Damonte (Copi ricevette minacce di morte, il
teatro parigino venne devastato), ma che forse intendeva rappresentare la rottura di tutti i codici
del potere maschile da parte di una figura femminile per nulla incline a essere
mortalmente santificata.
Argentino che, come i connazionali Héctor Bianciotti, Néstor
Perlongher, Juan Rodolfo Wilcock e Manuel Puig, sembra far parte di una
diaspora omosessuale e intellettuale che non disdegna di adottare altre lingue - è stato così, almeno, per Bianciotti e
per Wilcock, che scrissero rispettivamente in francese e in italiano -, Copi si
servì quasi sempre del francese. Ma in quel francese riversò invenzioni
personali, giochi di parole, incursioni in altre lingue (si veda lo sgrammaticato
italiano del romanzo Le bal des folles),
e infine l’anima stessa del lunfardo,
dello spagnolo contaminato e “sporco” parlato dagli immigrati e portato in
scena dal grotesco criollo, genere
teatrale e popolare nato all’inizio degli anni’20 e caratterizzato da un
umorismo delirante, dalla caricatura, dal travestimento, la cui influenza
sull’opera di Copi è innegabile e che verrà rivisitato in una delle sue ultime
opere teatrali, Cachafaz, su una
coppia sottoproletaria e omosessuale che uccide i poliziotti da cui è
perseguitata e li trasforma in cibo per sé e per l’intero quartiere. Un impasto
linguistico personalissimo, insomma, che unito a un sotterraneo ma indubbio
rigore formale ha indotto più di un critico ad avvicinare Copi a un altro
meraviglioso “inclassificabile”, il grande cuentista
uruguayano Felisberto Hernández. Un accostamento suggestivo e piuttosto
discutibile, ma che dimostra la crescente considerazione per un autore di
assoluta modernità, capace di farci ridere “come chi è appena stato morso da un
cobra”, e che andrebbe recuperato e valutato nella sua interezza.
Questo articolo è uscito
su Il Manifesto nell’agosto del 2012.