Lucia Puenzo |
Il bambino pesce
Intelligente, bella e piena di talento, nonché figlia e moglie “d’arte” (suo
padre è il regista Luis Puenzo, che nel 1985 vinse l’Oscar per il miglior film straniero,
e suo marito è Sergio Bizzio, scrittore conosciutissimo in Argentina), Lucia Puenzo
è nota in Europa soprattutto come regista, grazie a XXY, un film tratto da
un racconto di Bizzio su un’adolescente ermafrodita. Ma la Puenzo, nata a Buenos
Aires nel 1976, non si occupa solo di cinema o televisione (ha scritto e diretto
telefilm, documentari e miniserie): è anche autrice di tre romanzi, tutti puntualmente
pubblicati in patria da ottime case editrici come Adriana Hidalgo e Interzona, e
dal primo di essi ha tratto il suo secondo lungometraggio, presentato alla Berlinale
e in aprile al Festival di Malaga. Un buon viatico per la traduzione italiana del
romanzo in questione, El niño pez (Il bambino pesce, La Nuova Frontiera,
traduzione di Elisa Tramontìn), scritto a ventitré anni e uscito in Argentina nel
2004.
Come di molti romanzi giovanili, anche di questo si può dire che è pieno di
buone idee governate in modo incerto; la tecnica narrativa e la scrittura appaiono
infatti acerbe e approssimative, e la trovata di eleggere a voce narrante il cane
della protagonista, un botolo cinico e sboccato di nome Serafín, non è delle più nuove… E tuttavia Il bambino pesce
è un romanzo insolito e furibondo che, nonostante le molte e lampanti ingenuità,
una volta cominciato si è quasi costretti a terminare per via della sua ipnotizzante
carica di rabbia: una sorta di stilizzato cartoon lesbico o di sanguinaria road
story adolescenziale alla Thelma e Louise, con, al posto delle decappottabili,
le scassate corriere della carretera che unisce Buenos Aires ad Asunción.
Le protagoniste sono due ragazzine di classi sociali diverse: Guay, giovanissima
domestica paraguayana, e la sua coetanea Lala, figlia diciassettenne di una ricca
coppia borghese, che diventano amanti e si ritrovano legate tanto da una passione
esclusiva e quasi feroce (quella di Lala, che non esita a giustiziare chi si frappone
tra lei e l’amata), quanto da fughe e bugie (quelle dell’inafferrabile Guay, che
non sa staccarsi da un passato violento e misterioso). E tra sangue, droga, un parricidio
consumato con serena freddezza, persecuzioni, echi di soap, tocchi alla Kill
Bill e leggende arcane (quella del bambino pesce che guida gli annegati sul
fondo del lago), si arriva a un finale bizzarramente poetico, aperto e desolato,
che è forse la cosa migliore del libro. Un’autentica fiaba nera dal ritmo incalzante
sedurrà le adolescenti innamorate dei più “duri” tra i manga al femminile.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2009