sabato 7 giugno 2014

da leggere: Jaume Cabré


Jaume Cabré



Lletres Catalanes

Non poteva esserci sfondo migliore, per la consegna a Jaume  Cabré del Premi d’Honor de les Lletres Catalanes, di quel Palau de la Musica che l'architetto Domenech, nazionalista e indipendentista, concepì come un tempio della musica catalana e soprattutto come luogo di riunione per una comunità profondamente cosciente della propria identità e decisa tanto a rivendicarla quanto a custodirla. Nel  ricevere il premio dalle mani di Muriel Casals, presidentessa di Òmnium Cultural, associazione con più di quarantamila soci che si batte per la diffusione e la difesa della cultura catalana,  Cabré  ha infatti  entusiasmato una platea di oltre millecinquecento persone con un discorso in cui si afferma che “la lingua è la patria di uno scrittore, e per me cercare di assicurarne la sopravvivenza è un motivo in più per lavorare per l’indipendenza politica del paese… Voglio una lingua che viva in pace, su un piede di parità, e che non debba chiedere costantemente scusa o il permesso di esistere”.
In questa forte presa di posizione, avvenuta dopo il rigetto dell’Estatut catalano da parte del Tribunàl Constitucional (vero baluardo della destra spagnola) - e solo poche settimane prima di un’immensa manifestazione di luglio cui ha partecipato un milione e mezzo di persone, al grido di “Nosaltres decidim. Som una naciò” -  c’è tutto l’orgoglio di una tradizione letteraria antica e solida, che aspira a essere conosciuta e considerata in ambito internazionale. Di questa aspirazione e di questo orgoglio  Cabré è oggi un esponente importantissimo e amato, non solo per la sua ormai vasta opera letteraria (sei raccolte di racconti, due saggi su lettura e scrittura, dieci romanzi e tre storie per bambini) e per il suo ruolo determinante nella nascita di una fiction televisiva in catalano - sono suoi i copioni di serie e telefilm come Crims o La granja, la teranyina o Sara -, ma anche per  l’ampia diffusione dei suoi libri all’estero.
Negli ultimi anni, infatti, i romanzi più importanti di questo autore che la motivazione del premio definisce “appartato e laborioso”, sono stati tradotti in una dozzina di lingue, e non è un caso che al Palau de la Musica sia stata Kirsten Brandt, la sua traduttrice tedesca, a pronunciare l’elogio di Cabré, che in Germania ha riscosso un successo enorme soprattutto con Les veus del Pamano, uscito anche in Italia presso la Nuova Frontiera (“Le voci del fiume”, 2007), casa editrice interamente dedicata alle letterature iberiche.
E’ sempre la Nuova Frontiera, che, dopo aver presentato nel 2009 al pubblico italiano il magnifico “Sua Signoria” (ambientato nella Barcellona del 1799 e tuttavia imperniato su temi sempre attuali come il potere, la corruzione, la fine di un regime), ci offre la possibilità di leggere nella traduzione di Stefania Ciminelli “L’ombra dell’eunuco”, romanzo su una generazione che nel ’68 aveva da poco compiuto vent’anni e che è anche quella dell’autore, nato a Barcellona nel 1947. In L’ombra de l’eunuc, uscito per la prima volta nel 1985, Cabré annoda e scioglie con abilità i nodi della storia familiare il cui prodotto ultimo è Miquel Gensana, afflitto da un perpetuo senso di colpa e troppo attento a ciò che non ha fatto o saputo fare. Lettore e sognatore accanito, Miquel ha trascorso l’infanzia nell’immensa casa paterna, ammaliato dallo zio Maurici, che nella biblioteca in cui sono racchiuse le sue ragioni di vita (i libri e il pianoforte) esercita su di lui le arti meravigliose di un pedagogo eccentrico, iniziandolo ai misteri della letteratura e del linguaggio, incluso quello musicale.
Più tardi e insieme all’amico Bolòs, Miquel conosce gli anni della militanza clandestina contro un franchismo troppo a lungo agonizzante: rigida disciplina di partito, cellule segrete, un’obbedienza che si spinge fino alle rapine in banca e all’esecuzione di un traditore. E poi la democrazia, il mestiere di giornalista culturale esercitato con successo, gli amori infelici o perduti, la casa e il patrimonio familiare che vanno in fumo, la presunta follia (o magari una forma di estrema difesa) dello zio Maurici che si dedica ossessivamente all’origami, creando complicate sculture di carta. E tutto questo, cioè la vita di un uomo apparentemente senza qualità e di quanti lo hanno preceduto e accompagnato, di quelli che lo hanno lasciato (come Bolòs, ucciso per una tardiva vendetta politica) e di chi sarà al suo fianco in futuro, viene condensato nello spazio di una vera e propria “cena funebre” in memoria dell’amico morto, assurdamente celebrata in quella che un tempo era la casa dei Gensana, trasformata in un pretenzioso ristorante alla moda.
Una storia densa e complessa,  “un romanzo totale" che inizia e si conclude  con la parola “tutto”, al ritmo del continuo farsi e disfarsi delle rivelazioni di Maurici, omosessuale costretto a negarsi, vittima impotente ma anche ragno che ha involontariamente tessuto, con la sola forza delle parole e dell’invenzione letteraria, la ragnatela delle disgrazie familiari. Una storia, ovviamente, in cui si affacciano temi cari all’autore: la natura e l’esercizio del potere politico, economico, familiare, la necessità della memoria, e la stessa riflessione sulla creazione artistica (in primo luogo la musica: la struttura di “L’ombra dell’eunuco” è modellata su quella del Concerto per violino e orchestra di Berg) e sul suo ruolo nella vita dei singoli e della collettività, che ha avuto inizio con Fra Junoy o l’agonia dels sons, secondo romanzo della cosidetta “Trilogia di Feixes”. E soprattutto una storia eccezionale non tanto e non solo per via di una trama che continuamente guida il lettore verso un nuovo punto di svolta, una nuova sorpresa, una nuova disposizione dei tasselli che la compongono, ma per il modo in cui è narrata.
Qui, più che in qualsiasi altro dei suoi romanzi,  Cabré fa ricorso a una tecnica superba, ricorrendo a una voce narrante che è quella del protagonista Miquel, ma passa di continuo (a volte nella medesima frase) dalla prima alla terza persona e si intreccia con quella di Maurici, incrociando piani temporali e luoghi, in un va e vieni che il lettore segue senza sforzo e senza mai avvertire il lavoro minuzioso dell’autore, che ha affinato la sua prosa all’estremo, fino a renderla fluida e naturale, segnata da un’ironia che non risparmia le situazioni più drammatiche, senza annacquarle ma inducendoci a considerare la condizione umana da altri e meno banali punti di vista. Vale dunque la pena di confrontarsi con l’opera di un autore catalano che ha molto da dare alla letteratura europea e internazionale, pur restando capace di conservare appieno la propria identità culturale. Perchè, come ha detto lo stesso  Cabré in una intervista, “non è detto che solo quanto si scrive in e su la Quinta Strada di New York  debba essere universale”.

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nell’ottobre del 2010