Morti senza eredi
Alla lettera vuol dire “colpo assestato con un mattone”, ma per gli spagnoli
ladrillazo indica soprattutto la speculazione edilizia che è stata alla base
di una bolla immobiliare ipertrofica e ormai irreparabilmente esplosa. Insediamenti
inverosimili come quello di Seseña, città fantasma a pochi chilometri da Madrid,
o di Marina d’Or, “la più grande città di villeggiatura del mondo”, ma anche lo
sviluppo abnorme di Marbella o di Benidorm sono il più eloquente biglietto da visita
del ladrillazo e delle sue devastazioni, documentate anche nel bel libro
del giornalista Juan Pedro Bator, Paraísos perdidos (Ormo), che mostra la
sfrenata urbanizzazione della costa spagnola accostando foto scattate tra il 1930
e il 2003.
E proprio questa cementificazione implacabile e la corruzione che la accompagna
sono i temi portanti di L’equatore delle cose (Garzanti) di Rafael Chirbes,
appartato sessantenne valenciano solitario amatissimo dal pubblico spagnolo, e che
per questo suo romanzo, definito “imprescindibile” dai critici del suo paese, ha
ricevuto nel 2007 il Premio Nacional de la Crítica e il Premio Cálamo.
Sarebbe un errore, però, leggere il romanzo soltanto o soprattutto in chiave
di denuncia, nonostante questa sia la più immediata e la più facile anche per i
lettori italiani, cui risulteranno fin troppo familiari gli incendi che spianano
la strada al cemento, gli amministratori che concedono licenze inconcedibili, le
collusioni con la malavita, il denaro sporco “sbiancato” da calce e mattoni, le
montagne che franano, il mare che si intorbida… Tutto ciò si incarna nel personaggio
di Rubén Bertomeu, architetto settantenne, signore del cemento e ricchissimo costruttore
di Misent, immaginario paese della costa valenciana ormai divenuto un atroce “vacanzificio”.
Bertomeu è l’unico a parlare in prima persona, in una narrazione polifonica che
procede secondo punti di vista diversi, tanti quanti sono i personaggi principali:
la sua giovanissima, avida seconda moglie Monica, adepta della fitness e della chirurgia
estetica, che mette al mondo un bambino per pura convenienza economica; Silvia,
la figlia di primo letto, restauratrice di mestiere e radical chic per vocazione,
che disprezza il padre ma non i suoi soldi, e il marito Juan, professore universitario
gelido e benpensante, vampiro che si nutre del talento altrui; Brouard, celebre
romanziere omosessuale ormai devastato dall’alcol e perso nel rimpianto del passato;
Collado, che per anni ha sbrigato il lavoro sporco per il costruttore, e Traiano,
mafioso russo trapiantato sulla Costa Blanca.
E poi c’è Matías, fratello minore di Rubén, ex comunista che ha conosciuto il
carcere e l’esilio, ex socialista non troppo convinto e infine “verde” dedito all’agricoltura
biologica, già membro di un giovanile terzetto di idealisti composto dai due Bartimeu
e da Brouard, un tempo decisi a cambiare il mondo attraverso l’arte, la letteratura,
la politica. La voce di Matías, però, la ascoltiamo soltanto attraverso quella degli
altri, perché tutto ruota intorno alla sua morte appena avvenuta, causa scatenante
del flusso di ricordi, rancori, conflitti, rievocazioni e riflessioni che compongono
il libro. Non per niente il titolo originale è Crematorio, a indicare il
forno cui verrà incenerito il corpo di Matías, ma anche la sconfitta di una generazione
(quella del ’68, che in Spagna è stata anche la protagonista della transizione),
la perdita di qualsiasi punto di riferimento etico, sentimentale e ideologico, la
morte della politica e il disfacimento del corpo, i miraggi e le illusioni a buon
mercato forniti dal sesso e dalla droga e infine la cannibalesca distruzione del
paesaggio, evidente metafora delle perdute illusioni di cambiamento in un mondo
dove parole e idee non sono nulla, se non involucri destinati a mascherare il cinismo
di una realtà brutale, e in cui anche l’arte e la letteratura diventano inutili
balocchi.
Specchio della società spagnola quanto della nostra, il romanzo è notevole sotto
vari punti di vista: il contenuto si cala in una forma dall’ammirevole varietà di
toni, resi assai bene dall’ottima traduzione di Stefania Cherchi, e la scrittura
semplice ma infinitamente curata è piena di immagini originali, ricca di colori,
odori, sapori, suoni quasi percepibili. Perfino la sovrabbondante intertestualità
cui l’autore fa cenno in una nota a fine volume non disturba né opprime, visto che
le molte citazioni inserite nei tredici durissimi, appassionanti capitoli del romanzo
sono sapientemente clandestine, per il piacere di chi saprà riconoscerle. Ma a colpire
è soprattutto la bravura di uno scrittore capace di tenere insieme una enorme quantità
di fili e di combinarli senza la minima caduta di tono, di tensione e di stile,
per narrare magistralmente la storia di tutti attraverso quella individuale di personaggi
che sembrano, nota un critico catalano, altrettanti ritratti di Francis Bacon.
Romanzo implacabile ma non impietoso, in cui l’uso abbondante del flusso di
coscienza consente di calarsi nei personaggi e di provarne compassione anche quando
li giudichiamo vili o ignobili, Crematorio è insomma una rappresentazione
corale del presente (non soltanto spagnolo, è bene ribadirlo) che ci esorta a renderci
conto ancora una volta di quanto sia diventato difficile uscire dal gioco, mentre
qualcun altro costruisce il mondo a propria mostruosa misura. Perché “sotto il paradiso
contemporaneo ci sono una discarica o un lago di spazzatura, o un cadavere di cui
bisogna nascondere il fetore” dice Chirbes. E forse ha ragione quando aggiunge:
“Mi fanno paura tutti questi morti senza eredi in cui ci siamo trasformati. Gli
unici semi fertili sembra che li abbia piantati il diavolo”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel maggio del 2009