Juan José Saer |
A volte terribile, sempre compassionevole
Il canone del Boom: questo il titolo dell’imponente convegno
che si è tenuto in otto università spagnole dal 5 al 10 novembre 2012 per analizzare
e celebrare il cinquantenario del cosiddetto Boom latinoamericano, fenomeno ancora
oggi discusso e controverso al quale si è deciso di assegnare come anno di nascita
il 1962. Una data opinabile e in certa misura arbitraria, ma comunque quella in
cui apparvero sei romanzi fondamentali, da Aura e La morte di Artemio
Cruz di Carlos Fuentes a La città e i cani di Vargas Llosa, Storie
di cronopios e di famas di Cortázar, La mala ora e I funerali della
Mamá Grande di García Márquez. Autori e titoli che sarebbero diventati celebri
e che figurano tra quelli scelti dal critico e scrittore cileno-argentino Luis Harss
per il suo Los nuestros (1966), testo canonico che ritrae dal vivo dieci
protagonisti del Boom ed è stato riproposto da Alfaguara. Interpellato da critici
e lettori in occasione della nuova edizione, Harss ha espresso un certo rimpianto
per non avere incluso altri autori nei suoi saggi-intervista, a volte perché, come
Cabrera Infante e Lezama Lima, quando Los nuestros uscì non avevano ancora
pubblicato le loro opere principali, e a volte perché non li conosceva, come nel
caso di Juan José Saer, nato nel 1937 a Serodino, vicino a Santa Fé (i suoi genitori
erano immigrati siriani di religione cristiana), che negli anni ’60 “ancora non
si faceva notare”.
Eppure, tra il 1960 e il 1966 il giovane Saer, che Ernesto Sabato chiamava con
paterna condiscendenza el turquito, aveva già pubblicato due libri di racconti
(En la zona e Palo y hueso) e due romanzi (Responso e La
vuelta completa) in cui sono già compiutamente visibili le caratteristiche di
un’opera che comprende dodici romanzi, cinque volumi di racconti e diversi brillantissimi
saggi sulla natura della narrativa. In Argentina, però, ben pochi si erano accorti
di lui, a parte il gruppo di amici che frequentava assiduamente (tra loro Antonio
Di Benedetto e il poeta Juan L. Ortiz), mentre all’estero il suo nome era sconosciuto
e lo sarebbe rimasto per oltre vent’anni.
Le ragioni di questa invisibilità, che si è protratta almeno fino agli anni
’80 e che solo dopo la scomparsa dell’autore è stata finalmente cancellata da studi
critici, convegni e rilanci editoriali, sono da ricercare in primo luogo nella “marginalità”
di un argentino di prima generazione nato e cresciuto nella provincia di Santa Fé
e poi emigrato a Parigi, dove sarebbe rimasto dal 1968 fino al 2005 (anno della
sua morte), come professore di letteratura all’università di Rennes. All’assenza
dalla scena culturale di Buenos Aires, il centro dove tutto accadeva, andò quindi
ad aggiungersene un’altra, ossia l’estraneità al gruppo “barcellonese” del Boom,
che non era solo geografica e generazionale ma anche di principio: pochi critici
sono stati severi quanto Saer verso un fenomeno da lui giudicato puramente commerciale,
e pochi si sono mossi, come lui, in senso del tutto opposto alla corrente delle mode letterarie, tanto da conquistarsi la nomea di autore
che scriveva “volgendo le spalle al mercato”, in cerca non di un pubblico o di “clienti”,
ma di lettori veri e di complici.
Ultimo e più importante mattone del muro che lo ha lungo circondato è stata
la sua intransigente ricerca formale (“La forma è essenziale in un romanzo; dai
grandi maestri del XX secolo abbiamo imparato che è a partire dall’organizzazione
formale e non dal ‘messaggio’ o contenuto che un romanzo irradia il proprio senso”,
affermò in un’intervista raccolta da Luisa Pranzetti), che lo ha fatto considerare
scrittore difficile, impegnativo e per pochi. Ma la sua estrema coerenza e l’inflessibile
convinzione che scrivere non abbia senso se non produce emozioni estetiche, e che
la forma-romanzo debba continuamente rinnovarsi per poter esistere, senza però smettere
di nutrirsi di quanto è venuto prima (il mito, la tragedia, i grandi autori del
passato), hanno fatto di lui l’autore di capolavori come El limonero real
(1974), La nubes (1997), Nadie Nada Nunca (1980), Glosa (1988)
e il postumo La Grande (2005), inducendo Ricardo Piglia a scrivere: “dire
che Juan José Saer è il miglior scrittore argentino di oggi significa sminuire i
suoi libri. Sarebbe giusto dire, per essere più precisi, che Saer è uno dei migliori
scrittori di oggi in qualsiasi lingua e che la sua opera – come quella di Bernhard
o di Beckett – si colloca al di là delle frontiere, in quella terra di nessuno che
è il luogo stesso della letteratura…”.
Tradotto ormai in buona parte del mondo, compresa l’Italia dove in anni diversi
sono apparsi i romanzi L’arcano (Giunti, 1994) e L’indagine (singolare
parodia del poliziesco pubblicata da Einaudi nel 2006), e i mirabili racconti di
Luogo (Nottetempo, 2007), Saer viene nuovamente proposto da La Nuova Frontiera
che ha scelto uno dei romanzi più significativi dell’autore argentino, ossia Cicatrici,
ottimamente reso in italiano da Gina Maneri).
Cicatrici, uscito in lingua originale nel 1969 e scritto
in sole venti notti dopo quasi sette anni di “gestazione”, è il primo romanzo che
Saer elabora lontano dall’Argentina e, pur partecipe della sorprendente coesione
tematica ed estetica della sua opera, segna in qualche modo una svolta: come lui
stesso sottolinea, la distanza gli consente infine di scrivere “in una luce diversa”
storie ambientate in Argentina. Prende così definitivamente forma uno spazio già
ben presente nei testi precedenti, ma che qui si trasforma in luogo della mente:
Saer, come i suoi maestri Joyce, Faulkner e Onetti, ambienta invariabilmente romanzi
e racconti nella Zona da cui prende il titolo il suo primo libro, ovvero la regione
del Litorale argentino, Santa Fé, le rive del Paranà e l'estuario del Rio de la
Plata. Un luogo riconoscibile eppure quasi astratto, che non è semplicemente uno
sfondo ma, sottolinea Beatriz Sarlo, “una materia poetica centrale come la storia
che racconta” e che, insieme a un nugolo di personaggi ricorrenti e legati fra loro
da una amicizia incapace di cedere agli anni, rappresenta l’ossatura di un sistema
narrativo composto da pezzi singoli, da testi compiuti, di registro quanto mai variabile
e leggibili separatamente, a cui se ne vanno via via aggiungendo altri, ognuno dei
quali modifica in qualche modo i precedenti e dove il lettore, dice Saer, può entrare
da un punto qualsiasi, “senza seguire nessun ordine preciso, né gerarchico (dal
punto di vista estetico), né tematico, né cronologico”.
Esempio perfetto di questo spazio-tempo piegato alle proprie esigenze da un
narratore rigorosissimo, Cicatrici racconta quattro storie imperniate ciascuna
su uno dei consueti personaggi chiave dell’autore, che parlano in prima persona:
Angel, giovanissimo appena entrato nel mondo degli adulti e neo giornalista che
ha preso a modello Tomatis, cinico scrittore e cronista; l’avvocato Escalante, che
ha abbandonato la politica, la professione e ogni altra cosa per dedicarsi alla
passione per il gioco e alla stesura di occasionali saggi sui fumetti; il solitario giudice López Garay, dedito alla
traduzione di Oscar Wilde e probabilmente omosessuale; e infine l’operaio peronista
Fiore, che ha ucciso la moglie a fucilate dopo una scampagnata. Tutte le storie
(le prime due al passato, le altre al presente, che per Saer è il tempo della percezione
immediata) sono collegate dall’incrociarsi continuo dei personaggi, di volta in
volta protagonisti e comprimari, uniti dal caso o da opinioni estetiche o politiche
(la politica, o meglio una visione politica del mondo, è una delle grandi tracce
sotterranee presenti nei libri di Saer), in qualche modo coinvolti nelle conseguenze
del delitto commesso da Fiore, e avvolti dal grigio inverno di Santa Fé e dal suo continuo piovigginare. Ogni storia si svolge in un tempo via via
più breve: cinque mesi la prima, tre mesi la seconda, due la terza, un solo giorno
l’ultima, come se l’autore avvicinasse sempre di più l’obiettivo al colpo di fucile
sparato da Fiore e al corpo di sua moglie. Una storia a spirale che si avvolge su
se stessa, per concludersi con la descrizione precisa e ossessiva (come sempre in
Saer, avvicinato per questo al nouveau roman, ma in realtà più vicino alla
minuziosità proustiana) dell’evento originario: l'inizio (il delitto) e la fine
(il suicidio di Fiore davanti agli occhi stupefatti del giudice) hanno preso il
posto l'uno dell'altro.
Costruito con suprema abilità e sostenuto da una scrittura unica, estremamente
pensata ma al tempo stesso musicale e segnata dallo stesso ritmo della poesia, che
accompagna tutta l’opera saeriana (non per niente l’unico libro di poesie dello
scrittore si intitola El arte de narrar), il gioco quasi alla Escher di Cicatrici
potrebbe apparire freddo e geometrico, troppo intellettuale per avvincere. E invece
è proprio il contrario, perché la prosa che ci viene offerta è trascinante e densa
di emozioni, tanto da ricordare lo scorrere dei grandi fiumi vicino ai quali l’autore
è cresciuto. Immerso nella “fitta foresta” di una realtà magmatica che confusamente
lo aggredisce da ogni lato, Saer si rivolge alla letteratura da autentico maestro,
per cercare di rappresentare, ma anche imbrigliare e domare il disordine e dargli
un senso forse impossibile. E proprio per questo, dice Manuel Fernández Cuesta, che ha presieduto alla recente edizione di tutti
i suoi racconti per l’editrice El Aleph, Saer va riletto proprio oggi, in tempi
di crisi e di tempesta: perché ci ricorda chi siamo e qual è il nostro posto nel
mondo, e ci restituisce una immagine a volte terribile ma sempre compassionevole di
noi stessi.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2012