sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Juan José Saer



                                                                                                                 Juan José Saer




A volte terribile, sempre compassionevole 

Il canone del Boom: questo il titolo dell’imponente convegno che si è tenuto in otto università spagnole dal 5 al 10 novembre 2012 per analizzare e celebrare il cinquantenario del cosiddetto Boom latinoamericano, fenomeno ancora oggi discusso e controverso al quale si è deciso di assegnare come anno di nascita il 1962. Una data opinabile e in certa misura arbitraria, ma comunque quella in cui apparvero sei romanzi fondamentali, da Aura e La morte di Artemio Cruz di Carlos Fuentes a La città e i cani di Vargas Llosa, Storie di cronopios e di famas di Cortázar, La mala ora e I funerali della Mamá Grande di García Márquez. Autori e titoli che sarebbero diventati celebri e che figurano tra quelli scelti dal critico e scrittore cileno-argentino Luis Harss per il suo Los nuestros (1966), testo canonico che ritrae dal vivo dieci protagonisti del Boom ed è stato riproposto da Alfaguara. Interpellato da critici e lettori in occasione della nuova edizione, Harss ha espresso un certo rimpianto per non avere incluso altri autori nei suoi saggi-intervista, a volte perché, come Cabrera Infante e Lezama Lima, quando Los nuestros uscì non avevano ancora pubblicato le loro opere principali, e a volte perché non li conosceva, come nel caso di Juan José Saer, nato nel 1937 a Serodino, vicino a Santa Fé (i suoi genitori erano immigrati siriani di religione cristiana), che negli anni ’60 “ancora non si faceva notare”.

Eppure, tra il 1960 e il 1966 il giovane Saer, che Ernesto Sabato chiamava con paterna condiscendenza el turquito, aveva già pubblicato due libri di racconti (En la zona e Palo y hueso) e due romanzi (Responso e La vuelta completa) in cui sono già compiutamente visibili le caratteristiche di un’opera che comprende dodici romanzi, cinque volumi di racconti e diversi brillantissimi saggi sulla natura della narrativa. In Argentina, però, ben pochi si erano accorti di lui, a parte il gruppo di amici che frequentava assiduamente (tra loro Antonio Di Benedetto e il poeta Juan L. Ortiz), mentre all’estero il suo nome era sconosciuto e lo sarebbe rimasto per oltre vent’anni.

Le ragioni di questa invisibilità, che si è protratta almeno fino agli anni ’80 e che solo dopo la scomparsa dell’autore è stata finalmente cancellata da studi critici, convegni e rilanci editoriali, sono da ricercare in primo luogo nella “marginalità” di un argentino di prima generazione nato e cresciuto nella provincia di Santa Fé e poi emigrato a Parigi, dove sarebbe rimasto dal 1968 fino al 2005 (anno della sua morte), come professore di letteratura all’università di Rennes. All’assenza dalla scena culturale di Buenos Aires, il centro dove tutto accadeva, andò quindi ad aggiungersene un’altra, ossia l’estraneità al gruppo “barcellonese” del Boom, che non era solo geografica e generazionale ma anche di principio: pochi critici sono stati severi quanto Saer verso un fenomeno da lui giudicato puramente commerciale, e pochi si sono mossi, come lui, in senso del tutto opposto alla corrente delle mode letterarie, tanto da conquistarsi la nomea di autore che scriveva “volgendo le spalle al mercato”, in cerca non di un pubblico o di “clienti”, ma di lettori veri e di complici.

Ultimo e più importante mattone del muro che lo ha lungo circondato è stata la sua intransigente ricerca formale (“La forma è essenziale in un romanzo; dai grandi maestri del XX secolo abbiamo imparato che è a partire dall’organizzazione formale e non dal ‘messaggio’ o contenuto che un romanzo irradia il proprio senso”, affermò in un’intervista raccolta da Luisa Pranzetti), che lo ha fatto considerare scrittore difficile, impegnativo e per pochi. Ma la sua estrema coerenza e l’inflessibile convinzione che scrivere non abbia senso se non produce emozioni estetiche, e che la forma-romanzo debba continuamente rinnovarsi per poter esistere, senza però smettere di nutrirsi di quanto è venuto prima (il mito, la tragedia, i grandi autori del passato), hanno fatto di lui l’autore di capolavori come El limonero real (1974), La nubes (1997), Nadie Nada Nunca (1980), Glosa (1988) e il postumo La Grande (2005), inducendo Ricardo Piglia a scrivere: “dire che Juan José Saer è il miglior scrittore argentino di oggi significa sminuire i suoi libri. Sarebbe giusto dire, per essere più precisi, che Saer è uno dei migliori scrittori di oggi in qualsiasi lingua e che la sua opera – come quella di Bernhard o di Beckett – si colloca al di là delle frontiere, in quella terra di nessuno che è il luogo stesso della letteratura…”.

Tradotto ormai in buona parte del mondo, compresa l’Italia dove in anni diversi sono apparsi i romanzi L’arcano (Giunti, 1994) e L’indagine (singolare parodia del poliziesco pubblicata da Einaudi nel 2006), e i mirabili racconti di Luogo (Nottetempo, 2007), Saer viene nuovamente proposto da La Nuova Frontiera che ha scelto uno dei romanzi più significativi dell’autore argentino, ossia Cicatrici, ottimamente reso in italiano da Gina Maneri).

Cicatrici, uscito in lingua originale nel 1969 e scritto in sole venti notti dopo quasi sette anni di “gestazione”, è il primo romanzo che Saer elabora lontano dall’Argentina e, pur partecipe della sorprendente coesione tematica ed estetica della sua opera, segna in qualche modo una svolta: come lui stesso sottolinea, la distanza gli consente infine di scrivere “in una luce diversa” storie ambientate in Argentina. Prende così definitivamente forma uno spazio già ben presente nei testi precedenti, ma che qui si trasforma in luogo della mente: Saer, come i suoi maestri Joyce, Faulkner e Onetti, ambienta invariabilmente romanzi e racconti nella Zona da cui prende il titolo il suo primo libro, ovvero la regione del Litorale argentino, Santa Fé, le rive del Paranà e l'estuario del Rio de la Plata. Un luogo riconoscibile eppure quasi astratto, che non è semplicemente uno sfondo ma, sottolinea Beatriz Sarlo, “una materia poetica centrale come la storia che racconta” e che, insieme a un nugolo di personaggi ricorrenti e legati fra loro da una amicizia incapace di cedere agli anni, rappresenta l’ossatura di un sistema narrativo composto da pezzi singoli, da testi compiuti, di registro quanto mai variabile e leggibili separatamente, a cui se ne vanno via via aggiungendo altri, ognuno dei quali modifica in qualche modo i precedenti e dove il lettore, dice Saer, può entrare da un punto qualsiasi, “senza seguire nessun ordine preciso, né gerarchico (dal punto di vista estetico), né tematico, né cronologico”.

Esempio perfetto di questo spazio-tempo piegato alle proprie esigenze da un narratore rigorosissimo, Cicatrici racconta quattro storie imperniate ciascuna su uno dei consueti personaggi chiave dell’autore, che parlano in prima persona: Angel, giovanissimo appena entrato nel mondo degli adulti e neo giornalista che ha preso a modello Tomatis, cinico scrittore e cronista; l’avvocato Escalante, che ha abbandonato la politica, la professione e ogni altra cosa per dedicarsi alla passione per il gioco e alla stesura di occasionali saggi sui fumetti; il solitario giudice López Garay, dedito alla traduzione di Oscar Wilde e probabilmente omosessuale; e infine l’operaio peronista Fiore, che ha ucciso la moglie a fucilate dopo una scampagnata. Tutte le storie (le prime due al passato, le altre al presente, che per Saer è il tempo della percezione immediata) sono collegate dall’incrociarsi continuo dei personaggi, di volta in volta protagonisti e comprimari, uniti dal caso o da opinioni estetiche o politiche (la politica, o meglio una visione politica del mondo, è una delle grandi tracce sotterranee presenti nei libri di Saer), in qualche modo coinvolti nelle conseguenze del delitto commesso da Fiore, e avvolti dal grigio inverno di Santa e dal suo continuo piovigginare. Ogni storia si svolge in un tempo via via più breve: cinque mesi la prima, tre mesi la seconda, due la terza, un solo giorno l’ultima, come se l’autore avvicinasse sempre di più l’obiettivo al colpo di fucile sparato da Fiore e al corpo di sua moglie. Una storia a spirale che si avvolge su se stessa, per concludersi con la descrizione precisa e ossessiva (come sempre in Saer, avvicinato per questo al nouveau roman, ma in realtà più vicino alla minuziosità proustiana) dell’evento originario: l'inizio (il delitto) e la fine (il suicidio di Fiore davanti agli occhi stupefatti del giudice) hanno preso il posto l'uno dell'altro.

Costruito con suprema abilità e sostenuto da una scrittura unica, estremamente pensata ma al tempo stesso musicale e segnata dallo stesso ritmo della poesia, che accompagna tutta l’opera saeriana (non per niente l’unico libro di poesie dello scrittore si intitola El arte de narrar), il gioco quasi alla Escher di Cicatrici potrebbe apparire freddo e geometrico, troppo intellettuale per avvincere. E invece è proprio il contrario, perché la prosa che ci viene offerta è trascinante e densa di emozioni, tanto da ricordare lo scorrere dei grandi fiumi vicino ai quali l’autore è cresciuto. Immerso nella “fitta foresta” di una realtà magmatica che confusamente lo aggredisce da ogni lato, Saer si rivolge alla letteratura da autentico maestro, per cercare di rappresentare, ma anche imbrigliare e domare il disordine e dargli un senso forse impossibile. E proprio per questo, dice Manuel Fernández Cuesta, che ha presieduto alla recente edizione di tutti i suoi racconti per l’editrice El Aleph, Saer va riletto proprio oggi, in tempi di crisi e di tempesta: perché ci ricorda chi siamo e qual è il nostro posto nel mondo, e ci restituisce una immagine a volte terribile ma sempre compassionevole di noi stessi.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2012