Il Duchamp della letteratura latinoamericana
Non si può dire che César Aira sia uno sconosciuto, per l’editoria italiana.
Nel 1991, infatti, Bollati Boringhieri ha presentato uno dei suoi testi più famosi,
Ema, la prigioniera, mentre nel 2006 Feltrinelli si è azzardata a pubblicare
Il Mago, seguito l’anno dopo dal più che bizzarro Come divenni monaca.
Ma tre soli titoli in vent’anni, e per di più passati sotto silenzio, rischiavano
di essere un pessimo biglietto da visita per future traduzioni nella nostra lingua…
e invece no, per fortuna Aira è di nuovo fra noi con un romanzo irresistibile (I
Fantasmi, Sur, traduzione di Raul Schenardi) che racconta di un lussuoso palazzo
in costruzione popolato di spettri visibili solo a imbianchini e muratori, e disposti
a invitare al loro veglione di capodanno soltanto una ragazzina “troppo frivola”
per vivere a lungo. Un testo, tra l’altro, accompagnato dal viatico entusiasta del
New York Times che l’ha recensito nel 2009, definendo l’autore “il Duchamp della
letteratura latinoamericana”. E del resto non è su di lui, lentamente raggiunto
dal successo dopo anni di serena oscurità, che scommette oggi New Directions, la
casa editrice che ha portato negli USA Roberto Bolaño?
Considerato insieme a Ricardo Piglia e a Fogwill uno dei grandi della letteratura
argentina contemporanea, Aira è uno scrittore che non assomiglia a nessuno, anche
se nella sua opera sono evidenti la parentela con il surrealismo, ma anche l’attenzione
costante per una cultura di massa poco amata e tuttavia continuamente osservata,
adoperata, stravolta, burlata (per molti anni l’autore si è guadagnato la vita traducendo
commercial fiction soprattutto americana), e infine un legame preciso con
la provocatoria avanguardia di Osvaldo Lamborghini (1949-1985), scrittore clandestino
e segreto fino al giorno della sua morte, ma divenuto poi una leggenda, un “pezzo
centrale del sistema letterario argentino”, e del quale Aira ha curato l’edizione
delle poesie, dei romanzi e dei racconti, ancora assurdamente inediti in Italia.
L’asimmetria, la frammentarietà, l’umorismo infantilmente crudele o sboccato,
la brevità, il succedersi di vicende che non vengono portate a conclusione ma sbocciano
una dall’altra, abbandonando i personaggi al loro destino e dando al lettore l’illusione
di entrare in un racconto che sembra nascere di minuto in minuto davanti ai suoi
occhi, sono le caratteristiche del narrare di Aira, che, per quanto sembri spontaneo
e casuale, ha una sua rigorosissima non-logica interna e si fonda su frasi di grande
limpidezza e semplicità: all’oscurità delle trame corrisponde l’assoluta chiarezza
del linguaggio. Come Borges, Aira crea altri mondi che sono la faccia segreta del
nostro, ma possiede una vena giocosa che li trasforma in balocchi e non nutre alcun
interesse per la bella prosa o la frase elegante, anzi accetta imperfezioni e impurità
come parte essenziale del discorso letterario.
Un discorso che, per quanto lo riguarda, si articola in una considerevole quantità
di brevissimi romanzi tutti diversi ma, se li si guarda da vicino, inclini a comporne
uno solo: una sorta di unica, grande opera da decifrare piano piano… oppure no,
perché ci si può anche limitare a condividere il puro piacere e la grande libertà
che sono alla base della scrittura di Aira, autore che non ci tiene a essere perfetto
e vuole innanzitutto avventurarsi in territori il più possibile inesplorati. E che,
come ha confessato in una delle sue rarissime interviste, non desidera avere un
pubblico, ma preferisce i lettori, quello che vanno a cercarsi i suoi libri e non
guardano mai le classifiche.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2011