Yuri Herrera |
Di artisti, narcos e re
«México lindo. Libreria dell’aeroporto. Titoli in prima fila, da sinistra
a destra: Storie di impunità; I complici del presidente; Paese
di menzogne; La sfida di Calderón e la nuova mappa del narcotraffico;
Le storie nere del narco, impunità e corruzione in Messico; Cronache di
sangue; Gli stregoni del potere, e un esplosivo eccetera. Si direbbe
che ci sia più entusiasmo che indignazione verso i crimini, gli scandali e le catastrofi.
Non so se questa bibliografia denuncia un commercio o ne fonda un altro». Di passaggio
a Città del Messico, lo scrittore argentino Andrés Neuman registra questa rapida
impressione nella cronaca di viaggio Como viajar sin ver (Alfaguara, 2010),
e il suo colpo d’occhio sembra confermare quanto lamentano alcuni scrittori e critici
messicani, tra i quali Rafael Lemus e Jorge Volpi: dagli anni ’90 in poi, come osserva
il romanziere Hermann Bellinghausen, attorno al narcotraffico è nata una vasta produzione
editoriale composta da “opere letterarie ma non proprio, giornalistiche ma non proprio,
analitiche ma non proprio”, insomma una narcoliteratura che secondo i suoi
detrattori rischia di configurarsi come un genere redditizio e alla moda, ripetitivo
e frettoloso.
Ma c’è anche chi sottolinea autorevolmente l’impossibilità, perfino per una
narrativa che scelga di parlare d’altro e consideri troppo “facili” le storie di
sicari e polizia corrotta, di sorvolare su qualcosa che sconvolge una nazione fino
alle fondamenta e ne modifica non solo quotidianità, ma anche i valori e l’immaginario,
generando una sottocultura potente e invasiva.
Certo, la sovrabbondanza di narrazioni porta spesso con sé un sensazionalismo
di maniera, o si affida a uno schema sempre uguale: lo confermano le molte analisi
sulla rappresentazione letteraria del narco, il cui frutto sono saggi di
enorme interesse, da quelli della croata Diana Palaversich (The Politics of Drug Trafficking in Mexican and Mexico-Related Narconovelas) a quelli dell’ecuadoriana Gabriela Polit (La persuasiva escritura
del crimen: literatura y narcotráfico), che da anni studiano la narcoliteratura
non solo messicana.
Dal magma di una letteratura di consumo che è
sia riflesso immediato della realtà, sia prodotto sollecitato e richiesto dall’editoria
nazionale e straniera, che la impacchetta e la vende come ramificazione del thriller
e del noir, spuntano però anche autori di grande
spessore, lontani dall’adeguarsi alle pretese standardizzanti del mercato e capaci
di trasformare il lato oscuro del Messico in una narrativa ricca di fascino, energia
e novità anche formali. Uno di loro è senz’altro
Yuri Herrera, nato nel 1970 nello stato di Hidalgo
e laureato a Berkeley, che con due brevi romanzi (Trabajos del reino, Fondo
Editorial Tierra Adentro, 2004, e Señales que
precederán al fin del mundo, Editorial Periférica,
2009) si è imposto come uno dei migliori scrittori
latinoamericani di oggi, come i lettori italiani potranno scoprire leggendo la sua
opera prima, La ballata del re di denari, appena pubblicata da La Nuova Frontiera
nella traduzione di Pino Cacucci, chiamato a fronteggiare le difficoltà di un linguaggio
solo in apparenza semplice, in cui trovano spazio sia la poesia che le voci della
strada.
Si sa che l’uso di registri linguistici differenti è tipico della narcoliteratura,
che adopera con disinvoltura lo spagnolo quasi intraducibile della Frontiera e il
gergo dei narcos, e ci si potrebbe aspettare che Herrera si adegui a una
convenzione consolidata. Ma il perfetto equilibrio tra lingua popolare e secco lirismo,
tra asciuttezza e musicalità, raggiunto dall’autore con un accanito lavoro di limatura,
rimanda più a Juan Rulfo – maestro del novecento messicano che in Pedro Paramo
ha filtrato e reinventato le parole dei contadini e dei paesani – che all’iperrealismo
linguistico di tanti narcoromanzi, cui corrisponde quello di trame e personaggi
modellati su una cronaca alla quale è difficile tenere dietro, tanto è rapida la
sua sanguinosa evoluzione. A questo inseguimento Herrera si sottrae non perché rifiuti
di riprodurre una realtà atroce, ma perché allo stereotipo preferisce l’archetipo,
raccontandoci una sorta di fabula essenziale i cui personaggi, come nella fiaba
popolare, vengono identificati da pochi tratti distintivi e non hanno nomi propri,
ma sono indicati dalla loro funzione: il Re, il Gioielliere, La Bimba, la Strega,
il Giornalista, il Gerente, il Dottore. Il commercio della droga non è mai citato,
il luogo non è specificato (ma il lettore non ha dubbi: il Re è il capo di un “cartello”,
la città incollata alla Frontiera somiglia a Ciudad Juárez), la rinuncia alle descrizioni è quasi totale e concede solo dettagli nitidissimi:
le cicche che fioriscono dalla segatura sul pavimento come da un prato, il volantino
con l’appello per una ragazza scomparsa, una gola tagliata da un’estremità all’altra…
E il punto di vista della narrazione non è quello ormai abituale del sicario e del
trafficante, oppure dei loro avversari o vittime, ma appartiene a Lupo (l’unico
ad avere un nome, subito nascosto dietro l’appellativo di Artista), un povero cantante
di corridos che si esibisce per chi lo paga.
Stregato dalla presenza del Re e dal gesto con cui amministra una sorta di barbara
giustizia, l’Artista ne diventa il cantore e si installa a “corte”, in un edificio
che trabocca di lotte intestine e segreti. Suo compito è celebrare il potere del
Re attraverso il ritmo di una musica antica e popolare trasformata in una tentacolare chanson de geste (ma anche in un modo
per lanciare messaggi, minacce, avvertimenti) che in Messico si chiama narcorrido,
o anche corrido pesado o perrón, cantato da gruppi e solisti ormai
celebri, a volte al servizio dei cartéles come Beto Quintanilla o il leggendario
Chalino Sánchez, ucciso nel ’92 dopo un concerto. Corridos
pesados («[…] non canzoncine della buonanotte, il corrido non è un quadretto
da appendere alla parete. È una verità e un’arma») sono appunto quelli dell’Artista,
che, rifiutati dai circuiti ufficiali, dilagano ovunque in città, carichi di ammirazione
per l’uomo forte e maestoso che gli ha finalmente dato un posto nel mondo. Quanto
il suo ruolo sia illusorio e fino a che punto i cortigiani, lui incluso, siano semplici
oggetti, strumenti intercambiabili, l’Artista lo scopre a poco a poco, mentre osserva
con occhio quasi innocente, ma attento a ogni contraddizione, le trame di palazzo,
i cadaveri scannati e una donna prigioniera e ribelle che lo turba e lo inquieta.
Finché un corrido sbagliato, scritto con passione e compassione, segna la
sua disgrazia, spingendolo verso la libertà e costringendolo a vedere il Re com’è
veramente: «Un poveraccio tradito. Una goccia nel mare di storie umane. Un uomo
senza alcun potere sulla fervente fucina che era la testa dell’Artista».
Proprio come quella del linguaggio e dello stile, nel romanzo di Herrera anche
la semplicità della trama è del tutto ingannevole, e non è difficile rendersi conto
che un testo così trattenuto e così alieno dal cedere a qualunque compiacimento
si offre a molte letture diverse. La prima, la più immediata, è quella che vede
in La ballata del re di denari un anomalo romanzo nero sui meccanismi interni
e soprattutto sui miti del narcotraffico (morte, sangue, potere, denaro, donne come
vuoti a perdere, machismo esasperato, intreccio fra sacro e profano). La seconda
è quella della decana del Messico letterario, Elena Poniatowska, che parla di “una
critica sociale dal contenuto assolutamente politico”, un’allegoria della “dittatura
travestita” nata a ridosso della Rivoluzione. Ma alla luce del percorso compiuto
da Lupo, del suo interrogarsi su quel che c’è dietro “il muro delle cose”, e di
un finale in cui l’Artista recupera il suo nome e riconosce se stesso, verrebbe
da dire che questo è anche un poetico e sinistro romanzo di formazione, da accostare,
nonostante le molte differenze, a Fiesta en la madriguera (Anagrama, 2010),
la notevole opera prima di un coetaneo di Herrera, Juan Pablo Villalobos – in Italia
la pubblicherà Einaudi Stile libero –, che racconta la vida narco attraverso
lo sguardo di un bimbetto, figlio del capo di un cartello: una conferma del fatto
che, con scrittori così, la giovane letteratura messicana si è ormai lasciata alla
spalle la riduttiva e insufficiente etichetta della narcoliteratura.
Ma la lettura più convincente è forse l’ultima, che non esclude le altre e le
inserisce in un discorso più ampio, usando la “messicanità” del romanzo per parlare
del rapporto tra Potere e Arte in un contesto che non è solo latinoamericano, perché
si riferisce a quello che Carlos Monsiváis definiva “l’episodio più grave della criminalità neoliberale”. È così che La
ballata del re di denari, nato da un humus apparentemente locale, acquista una
universalità che induce chiunque sia oggi consapevole dell’intreccio fra politica,
criminalità, corruzione e produzione di cultura in un mondo globale, a riflettere
e a interrogarsi sulla possibilità di resistere alla sua crescente egemonia. E quella
di un’Arte che sappia fare a meno dei Re potrebbe essere una scelta strategica.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel settembre del 2011