Tomás Eloy Martínez
Aveva dieci anni quando i genitori gli proibirono di leggere (sua
madre era convinta che lettura e scrittura gli avrebbero “dannato l’anima”) e
fu per beffare questo assurdo divieto che Tomás Eloy Martínez, nato a San
Miguel de Tucumán nel 1934 e cresciuto in anni in cui “l’immaginazione era
proibita”, scrisse il suo primo racconto. Da allora non smise più, fino a
diventare lo scrittore e il giornalista che tutto il mondo di lingua spagnola
celebra e rimpiange, dopo la sua morte avvenuta a Buenos Aires.
Nonostante un grave intervento e cure dolorose, il tumore al cervello contro cui lottava da tempo non era riuscito a spuntarla sulla sua ostinata vitalità, tanto che Martínez ha continuato quasi fino all’ultimo a onorare la sua collaborazione con La Nación, El País e The New York Times, a seguire l’attività della Fundación Nuevo Periodismo creata e presieduta dal suo grande amico Gabriel García Márquez, e a scrivere, tanto da produrre un ultimo e corposo romanzo intitolato Purgatorio (Alfaguara 2009), in cui affronta per la prima volta il tema dei desaparecidos.
Nonostante un grave intervento e cure dolorose, il tumore al cervello contro cui lottava da tempo non era riuscito a spuntarla sulla sua ostinata vitalità, tanto che Martínez ha continuato quasi fino all’ultimo a onorare la sua collaborazione con La Nación, El País e The New York Times, a seguire l’attività della Fundación Nuevo Periodismo creata e presieduta dal suo grande amico Gabriel García Márquez, e a scrivere, tanto da produrre un ultimo e corposo romanzo intitolato Purgatorio (Alfaguara 2009), in cui affronta per la prima volta il tema dei desaparecidos.
Antiperonista da sempre senza per questo essere un gorila, giornalista
leggendario senza padroni e senza peli sulla lingua, autore di reportages
e interviste memorabili ( in parte
raccolti in uno dei suoi libri più affascinanti, Lugar común la muerte), Eloy Martínez non rinunciò mai a un
mestiere che considerava “un atto di ribellione, una ricerca di libertà” e come
molti intellettuali argentini della sua generazione trascorse buona parte della
vita in esilio, prima in Venezuela e Messico dove si era rifugiato per sfuggire
alla Triple A e quindi alla dittatura militare che bruciò in piazza i suoi
libri, e poi negli Stati Uniti come direttore del Programma di Studi
Latinoamericani dell’Università di Rutgers.
Tuttavia l’Argentina rimase sempre al centro della
sua scrittura, tanto che l’ultimo articolo per El País, uscito a fine
ottobre, era ancora una volta dedicato a una nazione la cui infelicità, secondo
lo scrittore, dipende soprattutto dal proprio pensarsi come “un grande paese schiacciato da sventure
di cui non è responsabile”, un paese insomma “che pensa di avere meno di quel
che merita e di essere più di quel che
è”. E dell’Argentina e della sua storia recente parla anche l’Eloy Martínez
narratore, capace di raccontare la realtà come un romanzo quanto di trasformare
la materia romanzesca in realtà. Se da giornalista verificava ogni fonte, ogni
notizia, ogni dato per poi restituirli ai suoi lettori attraverso una
narrazione fluida e avvincente, da scrittore sapeva invece innestare sui fatti
storici vicende e personaggi del tutto immaginari, ma così attendibili e
rivelatori da apparire più veri del vero.
I suoi romanzi migliori, come La novela de Perón e soprattutto Santa Evita, sono non solo il frutto di un’analisi acuta e di
un’indagine puntigliosa sul peronismo (inesauribile enigma argentino al quale
gli italiani dovrebbero guardare come a un inquietante “specchio scuro”), ma
anche la dimostrazione di una straordinaria capacità fabulatrice. Perchè Tomás
Eloy Martínez non era un giornalista che voleva la gloria letteraria, o un
romanziere prestato al giornalismo, ma qualcosa di diverso, qualcosa di più,
come lui stesso ricordò il giorno in cui El País gli attribuì il premio Ortega y
Gasset: “Dato che limitarsi ad allineare i fatti significava, per me,
impoverirli e sminuirli, quel che ho fatto è stato raccontarli”.
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nel gennaio del 2010