Todas las sangres
C’è
stata una grande assente alle celebrazioni del 2011 per il centenario della
nascita di José María Arguedas (Andahuaylas 1911- Lima 1969), uno dei più
grandi scrittori latinoamericani nonché antropologo ed etnologo di valore. La
sua seconda moglie, la cilena Sybila Arredondo, non ha partecipato a nessuna
delle manifestazioni in territorio peruviano: laggiù, infatti, la vedova di
Arguedas è considerata “persona non grata”, dopo aver scontato quattordici anni
di carcere duro per una accusa mai veramente provata, quella di aver fornito
armi alla guerriglia di Sendero Luminoso.
Arrestata
durante la prima presidenza di Alan García (che l’aveva definita “una delle
donne più pericolose del Perù”, ma che non riuscì a farla condannare) e poi
incarcerata da uno dei tribunali “senza volto” del regime di Fujimori, Sybila è
tornata in libertà solo nel 2002 e oggi vive in Francia, dove continua ad
occuparsi dell’opera di colui che fu suo marito per pochi anni, e che prima di
uccidersi, vinto da una antica depressione, le aveva chiesto di non lasciare il
paese di cui aveva acquisito la cittadinanza.
Certo
Arguedas, che pure aveva conosciuto il carcere nel 1937 (un’esperienza
descritta nel suo romanzo El Sexto,
del 1961) per aver partecipato alle manifestazioni studentesche contro la
missione in Perù del fascista italiano Cammarota, non poteva prevedere i
tremendi anni della dittatura Fujimori e lo spaventoso trattamento riservato
alla sua vedova, che aveva condiviso con lui lavoro intellettuale e idee
politiche. Prevedibile, invece, era che García, giunto alla fine del suo
secondo mandato presidenziale, rifiutasse la proposta di proclamare il 2011
“Anno del centenario della nascita di José Marìa Arguedas”, preferendo rendere
omaggio all’americano Hiram Bingham, presunto e discusso “scopritore” (ma
soprattutto predatore) delle rovine di Machu Picchu nel 1911, e delegando a un
comitato le più che tiepide celebrazioni ufficiali arguediane. Un autentico e
meschino sberleffo alla memoria dello scrittore, che degli autoctoni peruviani
e della loro cultura fu il cantore e l’interprete, pur rifiutando sempre la definizione di “indigenista”.
A
oltre quarant’anni dalla sua morte, lo scrittore resta dunque un personaggio
scomodo, in un paese che non ha mai veramente sanato la frattura tra la sua
anima india e quella bianca e criolla,
tra i conquistados e i conquistadores che ancora oggi, in nome
stavolta di una modernità “globale”, ignorano, disprezzano o cancellano una
cultura antica, derubricandola a trouvaille
etnologica o a colore locale a uso dei turisti. Eppure proprio in Arguedas e
nella sua opera queste due culture sembrano in qualche modo parlarsi,
instaurare una dialettica che fa appello alla ragione come ai sentimenti, lasciando intravedere la
possibilità di una organizzazione sociale in cui ci sia
posto e voce per ognuno, come suggerisce l’autore in un suo romanzo della
maturità (“Tutte le stirpi”, Einaudi 1974), il cui protagonista è Demetrio
Rendón Willka, figura di leader che conserva i suoi valori tradizionali e li
coniuga con i nuovi, riuscendo ad incarnare una proposta di uguaglianza,
integrazione e libertà che vale per tutti, indios
e criollos.
Anche se Mario Vargas Llosa, che di Arguedas
si è sempre proclamato grande estimatore, almeno dal punto di vista letterario,
in un suo saggio liquida questa proposta come irrealizzabile e superata (La Utopia Arcaica: José María Arguedas y Las Ficciones del Indigenismo,
1997, Fondo de Cultura Económica), simbolo di un “passatismo” che rigetterebbe
la società urbana e il concetto stesso di individuo a favore di un impossibile
paradiso perduto, quella dello scrittore di Andahuaylas è in realtà una utopia
apparente, che fluisce verso la conoscenza e
l’accettazione dell’altro,
insomma verso la possibilità di mondo nuovo che includa e rispetti todas las sangres.
Una
conoscenza e un’accettazione che Arguedas aveva assorbito sin da bambino,
quando il padre, avvocato itinerante, l’aveva lasciato nelle mani di una
matrigna e di un fratellastro che lo sottoposero a terribili abusi e lo fecero
vivere con la servitù indigena che lo accolse con amore e gli insegnò il
quechua (per lui, la lingua degli affetti), permettendogli di immergersi nella
cultura india al punto da trasformarsi in un “indio bianco” dagli occhi chiari,
che una volta cresciuto compirà un immenso lavoro di trascrizione,
registrazione e analisi dei miti, della poesia e dei canti andini.
Di
questa infanzia e adolescenza crudeli, ma anche meravigliose, possiamo leggere
il racconto nel suo terzo romanzo, Los
rios profundos (“I fiumi profondi”) del 1958, che Einaudi pubblica in una
nuova edizione, nell’ormai classica traduzione di Umberto Bonetti del 1971 e
con una nuova introduzione di Marco
Aime che sostituisce quella “storica” di Vargas Llosa, così spesso chiamato a
prefare un autore che è il suo assoluto contrario, dallo stile - intensamente
lirico in Arguedas - alle idee politiche.
Una storia bellissima e potente, in cui si nascondono forse le radici
della sofferenza che alla fine portò lo scrittore a uccidersi con un colpo di
pistola. E soprattutto un romanzo di iniziazione magnificamente inattuale,
perché lontano dalle mode e capace di sopravvivere al tempo, ma che può servire
a comprendere meglio il Perù di oggi.
Questo
articolo è uscito su Il Manifesto nell’aprile del 2011