sabato 7 giugno 2014

Anniversari e addii: Hector Bianciotti


Hector Bianciotti



L'ibrido perfetto

Qualcuno una volta gli fece notare, come per scherzo, che possedeva tutte le caratteristiche del tipico argentino: cognome italiano, lingua spagnola, e quel desiderio di essere francese che ha connotato più generazioni di intellettuali rioplatensi. Solo che Hector Bianciotti, nato nel 1930 e morto il 12 giugno del 2012 nella clinica parigina in cui l’aveva costretto una forma devastante di alzheimer, francese lo era diventato per davvero: naturalizzato nel 1981, aveva smesso di scrivere nella sua lingua d’origine per adottare quella del paese che nel 1961 lo aveva accolto e dove, nel ’96, era diventato membro dell’Académie grazie alla sua più che notevole opera letteraria, sempre in bilico tra autobiografia e romanzo - in Italia è nota  soprattutto grazie  alle traduzioni di Angelo Morino -, ma anche per un’autorevole presenza in campo editoriale (aveva ricoperto ruoli importanti presso Gallimard e Grasset, occupandosi con immensa competenza di letteratura italiana e latinoamericana), e alla lunga attività di critico per Le Nouvel Observateur e Le Monde. 
Una buona metà dei suoi libri (una quindicina di romanzi, alcuni saggi) sono in uno spagnolo elegantissimo, usato con rara perizia, e che tuttavia non era stato la lingua della sua prima infanzia. Da piccolo, infatti, Bianciotti parlava in dialetto piemontese come i suoi genitori, approdati agli inizi del ‘900 a Calchín Oeste, nella piattissima “pampa del grano” cordobesa: un paesetto di poche centinaia di abitanti, così tenacemente legati alle radici da celebrare ancora oggi una “Fiesta Nacional de la bagna cauda”. Il primo shock linguistico gliel’aveva dunque provocato il passaggio allo spagnolo, indispensabile per imparare a leggere e a scrivere, e poi per frequentare il seminario che, a tredici anni, gli era apparso come l’unica possibile via di fuga verso una vita diversa. Lo lascerà a diciotto anni per andarsene nella capitale, e nel 1955 partirà per l’Italia, deluso e in qualche modo spaventato dalla cupa Buenos Aires che poi descriverà in Ciò che la notte racconta al giorno (Feltrinelli 1993), rievocando l’incubo di un codice di comportamento eterosessuale tacitamente quanto ferocemente imposto, che lui non poteva né voleva rispettare. E il suo approdo finale sarà, dopo qualche anno di miseria e di dolori, la Francia, il paese che lo farà ri-incontrare con sé stesso, che riconoscerà il suo talento e che lo spingerà verso un’ultima metamorfosi, da cui uscirà come scrittore prezioso e modernissimo (e, per il lettore italiano, da riscoprire), l’ibrido perfetto originato da luoghi, culture, idiomi diversi .

Questo articolo è uscito su Il Manifesto nel giugno del 2012