Due machos anziani
Definitivamente trasformato in un monumento a se stesso dal premio Nobel ricevuto
nel 2010, Mario Vargas Llosa ha aperto nell’ottobre del 2013 l’ultimo Congreso
Internacional de la Lengua Española, che si è tenuto a Panama: un appuntamento
istituzionale e tuttavia attraversato da polemiche a volte aspre sulle sorti di
una lingua in continua evoluzione, ricca di varianti nazionali molto diverse per
toni, accenti e vocabolario. Oltre a tenere un ovvio discorso di circostanza, lo
scrittore peruviano ha presentato nella stessa sede il suo romanzo L’eroe discreto,
lanciato da Alfaguara e uscito anche in Italia presso Einaudi, che ha in catalogo
l’intera opera di Vargas Llosa. E forse non c’era sede più adatta di un congresso
dove el español de América fa la parte del leone, per presentare un testo
in cui l’autore abbandona la lingua relativamente neutra degli ultimi anni per tornare
a un’abbondanza di peruanismi che Federica Niola, cui si deve la bella e attenta
traduzione, ha riunito in un glossario finale.
Al “ritorno” lessicale ne corrisponde un altro, quello a due luoghi chiave della
narrativa e della vita di Vargas Llosa, ossia Piura e Lima, due città a lungo abbandonate
per compiere una sorta di giro del mondo letterario che parte dalla Repubblica Dominicana
di La festa del Caprone e approda all’Africa e all’Amazzonia dell’epico e
anticolonialista Il sogno del Celta. A chiudere il cerchio ci sono poi personaggi
come il sergente Lituma – già apparso in Il caporale Lituma sulle Ande, Chi
ha ucciso Palomino Molero? e il memorabile La casa verde – e come il
raffinato ed europeizzante don Rigoberto con la moglie Lucrecia e il figlio Fonchito
(protagonisti di Elogio della matrigna e I quaderni di don Rigoberto),
che tornano per abitare una storia nuova accanto a nuove figure, in primo luogo
quelle dei due “eroi discreti” che danno il titolo al romanzo: Felícito Yanaqué,
piccolo ma fortunato imprenditore del ramo trasporti, e il ricchissimo uomo d’affari
Ismael Carrera, proprietario di una importante compagnia di assicurazioni.
I due sembrano non avere molto in comune, se non l’età matura e il fatto che
entrambi sono grandi lavoratori, uomini all’antica delusi e preoccupati per il comportamento
di figli malriusciti; per il resto non potrebbero essere più diversi, visto che
Yanaqué è un cholo, ossia un meticcio dai tratti indigeni, e vive a Piura
dove è arrivato giovanissimo e si è ritrovato costretto a sposare una ragazzina
che forse era incinta di un altro (solo da poco Felícito ha scoperto l’amore con
una bellissima ragazza che mantiene con discrezione). Carrera, invece, è un criollo
puro che appartiene alle classi alte di Lima, un vedovo solitario e con molti rimpianti.
Le loro storie si dipanano in luoghi differenti e indipendentemente l’una dall’altra:
Yanaqué è alle prese con quello che sembra un tentativo di estorcergli un sostanzioso
“pizzo” che si rifiuterà pubblicamente di pagare, mentre Carrera fronteggerà l’aggressività
di due figli incapaci e avidi sposandosi con la sua cameriera e destinandole l’intera
eredità. Entrambi, in nome della dignità e dei valori che hanno contraddistinto
le loro esistenze, non esitano a mettere in gioco la propria vita di bravi e normalmente
“eroici” cittadini, finché le due vicende si incroceranno in un lietissimo finale.
Tra cenerentole che si trasformano in eleganti signore, digressioni erotiche,
segreti svelati, agnizioni al contrario, inganni, tentati rapimenti, indagini poliziesche,
incendi dolosi, indovine infallibili, il romanzo si imparenta intenzionalmente con
la forma più tipica del melodramma latinoamericano, ossia l’infinito feuilleton
prima radiofonico (quello cioè che fa da spina dorsale a uno dei più celebri romanzi
di Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino) e poi televisivo, come conferma
don Rigoberto quando constata che le storie della vita quotidiana sono “più vicine
alle telenovele venezuelane, brasiliane, colombiane e messicane che a Cervantes
e a Tolstoj, senza dubbio”. Ma dietro la fabulazione affollata di personaggi, dietro
i dialoghi brillanti e il ritorno di figure già note e di buona parte dei temi cari
allo scrittore (l’erotismo, le virtù civilizzatrici della letteratura e dell’arte,
i pregiudizi razziali, il divario sociale, il devastante sensazionalismo dei media),
Vargas Llosa nasconde dell’altro.
L’eroe discreto, infatti, va letto anche come un romanzo a
tesi impregnato di ottimismo neoliberale sul “nuovo” Perù, dipinto come un paese
in ascesa, avviato alla prosperità nonostante mille contraddizioni (la violenza,
i sequestri, la corruzione), un po’ più democratico e un po’ meno diseguale di quello
raccontato un tempo nel grandioso Conversazione nella cattedrale. A questa
possibile lettura, però, se ne sovrappone un’altra ancora, riconducibile all’aspro
conflitto generazionale che è in fondo il vero tema del romanzo e che sembra ribaltare
l’approccio alla figura paterna caratteristico dell’opera di Vargas Llosa, segnata
in profondità dal conflitto che durante l’infanzia e la giovinezza oppose lo scrittore
a un padre violento. La situazione, però, qui appare ribaltata: in L’eroe discreto
sono i figli a essere detestabili, feroci e addirittura criminali, o vili e
sbiaditi, oppure inquietanti e ambigui come il luciferino Fonchito, e su di essi
si abbatte la giusta e trionfante vendetta dei padri, fondata su inossidabili valori
ma anche su un sostanzioso senso di rivalsa, tanto da indurre lo scrittore e critico
argentino Gonzalo Garcés a definire Yanaqué e Carrera “machos anziani: patriarchi
invecchiati che mal sopportano di essere rimpiazzati […] Che cosa sono i figli in
questo romanzo, se non il Male?”.
Divertente e ironico, capace di avvincere il lettore e di farsi rapidamente
leggere (ma non rileggere, soprattutto da chi chiede alla letteratura qualcosa di
più che essere abilmente intrattenuto), L’eroe discreto non si può comunque
considerare uno dei migliori romanzi di Vargas Llosa – o, almeno, del Vargas Llosa
autore di una decina di opere memorabili e impossibili da ignorare –, non raggiunge
gli esiti estetici del passato, tralascia ogni ricerca formale, si risolve troppo
affrettatamente e ci restituisce personaggi molto amati, come Lituma, in una versione
rigida e di maniera, annullando in parte il piacere di ritrovarli. Allo stesso tempo,
però, L’eroe discreto è la dimostrazione di come si possa confezionare un
romanzo ben scritto e di buon livello, presumibilmente gradito a un gran numero
di lettori, affidandosi soprattutto ai trucchi e alle risorse di un notevole mestiere
e alla padronanza di una tecnica narrativa consumata, fino a costruire un solido
“oggetto d’uso” che funziona con meccanica precisione. Il che, tutto sommato, in
tempi di negligente sciatteria non è poco. Non è poco neppure incontrare, in una
rapida battuta, un nome che ai lettori italiani (e anche a molti di lingua spagnola)
forse non dice nulla, ma che rimanda a una delle figure più insolite e misconosciute
dell’avanguardia letteraria latinoamericana: quello del peruviano César Moro, pittore
e poeta surrealista di grande valore, outsider oggi ingiustamente dimenticato che
scrisse quasi tutta la sua opera in francese e che, ormai anziano, insegnò questa
lingua al giovane Mario Vargas Llosa. E che oggi lui lo ricordi attraverso la voce
del proprio alter ego don Rigoberto è commovente e allo stesso tempo meraviglioso.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel novembre del 2013