Segnali sul nulla
“Se non te ne vai subito da questo paese, sei perduto per sempre. C’è una nave
che parte per l’Italia tra venticinque giorni, non è cara. Io la prenderò”. Così,
nell’estate del 1955, Juan Rodolfo Wilcock (Buenos Aires 1919 – Lubriano 1978) annunciò
al giovanissimo Hector Bianciotti la sua intenzione di tornare in Europa, dove aveva
già vissuto tra il ’53 e il ’54 (a Londra era stato traduttore e collaboratore della
BBC), e di lasciare per sempre l’Argentina, mosso dal disgusto per il peronismo
e deluso da un paese che pure amava e dove lasciava amici devoti come Silvina Ocampo,
cui lo univano una profonda affinità umana e letteraria e un’affettuosa frequentazione
quotidiana.
Il ragazzo Hector, che lo aveva conosciuto nella ristretta cerchia del trio
Borges-Bioy Casares-Ocampo, decise di seguire quel consiglio: i due viaggiarono
sulla stessa nave, ma a bordo si videro appena e ripresero i contatti solo molti
anni dopo, quando entrambi erano diventati cittadini di un altro paese e scrivevano
in un’altra lingua. Ma se Bianciotti, stabilitosi a Parigi, viene oggi considerato
un autore francese a tutti gli effetti e nel 1996 divenne Accademico di Francia,
Wilcock ha avuto un diverso destino. Anche se il suo volontario sradicamento, divenuto
definitivo nel 1957, l’aveva trasformato da poeta neoromantico legato alla generación
del 40 in un raffinato e originalissimo prosatore italiano, nelle storie letterarie
del nostro paese il nome di Juan Rodolfo Wilcock brilla per assenza, o viene citato
solo per le molte, memorabili traduzioni dall’inglese e dal tedesco. Una rimozione
severa, che in anni recenti ha contribuito a rendere i suoi libri quasi introvabili
e noti solo ai lettori “divergenti” che frequentano i sentieri meno battuti. E una
doppia rimozione, per di più, perché, se non è mai stato in discussione il suo contributo
alla poesia del paese di origine (sei raccolte di versi intensamente lirici, la
prima delle quali, apparsa nel 1940, venne considerata un autentico prodigio), solo
dalla fine degli anni ’90 si è dato il via alla traduzione spagnola delle opere
scritte in italiano.
Sembrerebbe, insomma, che su entrambe le sponde dell’oceano sia stato difficile,
se non impossibile, riconoscere ed accettare l’identità multipla di un poeta che
nasce in Argentina da padre inglese e madre svizzero-italiana, e di un narratore
che muore quasi italiano (la cittadinanza gli verrà concessa post mortem), lasciandoci
un’opera considerevole – romanzi, racconti, teatro, un’enorme corpus di articoli
e recensioni, e infine gli splendidi Italienisches Liederbuch del 1974 –
interamente scritta nella nostra lingua, maneggiata con incredibile maestria.
Ma può anche darsi che, come dice uno dei suoi amici di allora, il poeta Elio
Pecora, alle radici di questa rimozione ci sia stato il rancore di un permalosissimo
e provinciale establishment letterario che Wilcock non cessò mai di sbeffeggiare
nei suoi articoli – fu per anni collaboratore di testate come “Tempo Presente”,
“Il Mondo”, “L’Espresso”, “La Voce Repubblicana” – e nei crudeli raccontini raccolti
in antologie quali Lo stereoscopio dei solitari, La sinagoga degli iconoclasti,
Frau Teleprocu o Il libro dei mostri, tutte pubblicate da Adelphi
tra il ’72 e il ’78. A meno che la causa di una così improvvida cancellazione –
interrotta solo dagli interventi raccolti in Segnali sul nulla, volume curato
nel 2002 da Roberto Deidier per le Edizioni Treccani – non risieda, più semplicemente,
nella sua natura di anticonformista noncurante e inclassificabile, padrone di una
cultura ampia e poliedrica (Wilcock, laureato in ingegneria, possedeva vaste competenze
scientifiche e filosofiche, parlava a perfezione quattro lingue ed era uomo di sterminate
letture), insomma nella sua unicità, suggellata da un quasi monacale ritiro nella
campagna viterbese – vero esilio nell’esilio –, e dal fatto di avere spesso e audacemente
precorso i tempi, come testimonia il ritorno in libreria del suo primo romanzo italiano,
Due allegri indiani, uscito per la prima volta nel 1973 presso Adelphi e
ora finalmente riproposto con la stessa copertina di allora.
Sfrenatamente comico, di una comicità surreale, demenziale e perfida, il libro
è un esercizio di bravura in cui ogni capitolo corrisponde a uno dei trenta numeri
di un’immaginaria rivista ippica, Il Maneggio, confezionati da un mestierante
che cambia continuamente nome (da Vincenzo Frollo a Fanalino di Coda), in un susseguirsi
di testi che sono la parodia di tutti i possibili generi e sottogeneri letterari,
ma anche dei vari tipi di scrittura giornalistica e delle trovate di un marketing
modesto quanto becero. Col cambiare delle identità dell’autore cambia anche il registro
del racconto, che si traveste via via da referto autoptico, da feuilleton, da polpettone
sentimentale, da western o romanzo di avventura, sempre accompagnato da un “dietro
le quinte” fatto di lamentele, polemiche e contrattazioni, ed è soprattutto uno
spietato collage di sketch sugli usi e costumi, letterari e non, di un’esilarante
Italietta familistica e opportunista, gonfia di luoghi comuni e frasi fatte, sbranata
da una penna che non potrebbe essere più sarcastica e corrosiva.
Un non-romanzo, insomma, privo di un centro e di una trama vera e propria ma
composto da frammenti allucinati, parti di un universo esploso che potrebbe espandersi
all’infinito, come a testimoniare che il fine ultimo della letteratura è la sua
dissoluzione. E del resto il frammento, la disunità, l’instabilità, come la crudeltà
e l’osservazione tragicamente divertita dell’orrido e della sua improponibile “bellezza”,
sono caratteristici dell’opera di Wilcock e, secondo il critico Reinaldo Laddaga
(Literaturas indigenas y placeres bajos, Beatriz Viterbo, 2000), lo inseriscono
in una piccola e stravagante famiglia i cui membri sarebbero il cubano Vicente Piñera
– anche lui un desterrado che scelse di vivere in un altro paese, l’Argentina
– e l’uruguayano Felisberto Hernández. Alla luce delle considerazioni di Laddaga,
Due allegri indiani andrebbe letto, allora, non solo come uno spettacolare
divertissement, ma come l’aperta irrisione nei confronti di chi pretende di mettere
ordine nel caos (che per Wilcock non è l’eccezione, ma la normalità) e amministrarlo.
E se la letteratura serve a qualcosa, è a dimostrare quanto questo sforzo sia vano
e a prendersene amaramente gioco.
Del resto proprio Il caos si intitola la prima raccolta di racconti che
Wilcock scrisse in spagnolo, poi tradotta in italiano da lui stesso per Bompiani
che la pubblicò nel 1960, e radicalmente rivista per l’ultima e definitiva edizione
Adelphi (Parsifal. I racconti del caos, 1974): un libro assolutamente da
ristampare, che potrebbe contribuire, dopo il ritorno di Due allegri indiani
e il successo di Il reato di scrivere, breve raccolta di articoli sul mondo
letterario (Adelphi 2010, pag. 88), alla riscoperta di un autore che Roberto Bolaño
inserì nella sua biblioteca ideale e del quale Ernesto Montequin (traduttore argentino
dell’opera di Wilcock, che da anni va raccogliendo materiali per una sua biografia)
scrive: “Wilcock è un enigma di cui la letteratura argentina potrebbe vantarsi,
se la letteratura italiana non fosse infinitamente più prodiga di enigmi e vanterie”.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel febbraio 2011