sabato 7 giugno 2014

Da leggere: Carlos Busqued


Carlos Busqued




Sotto questo sole tremendo

Jorge Herralde, fondatore e direttore della casa editrice spagnola Anagrama, è da sempre attentissimo alla letteratura latinoamericana: non a caso è stato lui a lanciare Roberto Bolaño e nel suo catalogo figurano i nomi di César Aira, Mario Bellatìn, Ricardo Piglia, oltre a quelli di giovani scrittori che rappresentano il futuro letterario del subcontinente americano. Una prova della sua capacità di non tirarsi indietro di fronte a scelte che possono apparire audaci, se non azzardate? Nel 2008, tra i tanti manoscritti arrivati da tutto il mondo di lingua spagnola per partecipare al premio cui ha dato il suo nome (vincerlo è una vera e propria consacrazione), Herralde ha individuato quello di un esordiente del tutto sconosciuto anche nel suo paese di origine, l’Argentina.

Il romanzo si intitolava Bajo este sol tremendo, e a scriverlo era stato Carlos Busqued, ingegnere non ancora quarantenne nato in un paesetto del Chaco e residente a Cordoba (oggi si è trasferito a Buenos Aires), dove insegnava all’Università e produceva stravaganti programmi radio mandati in onda nel cuore della notte. Aveva scritto qualche racconto, creato un blog piuttosto bizzarro chiamato La nutria es un animal del crepuscolo, ed era estraneo a qualsiasi ambiente editoriale e letterario.

A scrivere le 182 pagine del suo primo libro ci aveva messo quattro anni, poi le aveva infilate in una busta e spedite a Barcellona, dove Herralde ha immediatamente deciso di pubblicarle. È così che, nel 2009, è uscito in Spagna e in Argentina un romanzo accolto dalla critica e dai lettori come una vera rivelazione, e che grazie alla casa editrice Atmosphere appare in italiano nella traduzione di Silvia Raccampo. Ed era davvero ora che Sotto questo sole tremendo, già tradotto in Francia e in Germania, arrivasse da noi, anche se c’è il rischio che se ne accorgano in pochi, visto che non si tratta di un concorrente al premio Strega, di un porno-rosa per signore anziane o dell’opera prima di qualche ragazza graziosa. Ma di leggerlo vale la pena, eccome, perché il romanzo di Busqued è in grado di folgorare più di un lettore, lasciandolo così profondamente inquieto da continuare a pensarci con un’ombra di incuriosito disagio.

In apparenza Sotto questo sole tremendo è un noir in piena regola, che si apre con l’annuncio di tre morti violente, prosegue con truffe e rapimenti organizzati da un ex militare che gestisce una vera e propria industria del sequestro di persona, indugia sulla descrizione di un video pornografico oscillante tra il sadismo e il ridicolo, contempla due suicidi e si chiude con altri tre cadaveri. In realtà, però, il romanzo è qualcosa di più e di meglio che una pura e semplice novela negra, esce dagli schemi e utilizza in modo imprevisto gli elementi che potrebbero ricondurlo al genere.

Ambientata in un desolato paesaggio provinciale, tra un lurido e paesetto del Chaco australe, Lapachito, e l’estrema e povera periferia di Cordova, con i suoi macelli dall’odore pestilenziale e casette abusive circondate da sterpi, la storia non è particolarmente ricca di colpi di scena (se si esclude una sorta di inatteso lieto fine), ma, sostenuta da un ritmo serrato e senza sbavature, sembra costruirsi mentre la leggiamo, grazie a una impeccabile montaggio che accosta un’immagine all’altra senza dilungarsi troppo in descrizioni, definendo ogni scena grazie all’uso di pochi, forti elementi visivi e a un’oggettività iperrealista dietro la quale Busqued sembra nascondersi, deciso com’è a vedere e far vedere, senza giudizi morali o approfondimenti psicologici. E forse sono la spassionata rapidità, la naturalezza, lo humor nerissimo con cui disegna lo squallore e l’orrore, a far sì che finiscano per sembrarci tremendamente normali.

Il protagonista, Cetarti, è stato appena licenziato per scarso rendimento, passa tutto il suo tempo in casa a guardare i documentari di Discovery Channel e Animal Planet, fuma incessantemente marijuana, e nel corso del romanzo impara a fare a meno di quasi tutto: una figura anonima, senza volto e senza emozioni, che ha come unico compagno un axolotl immerso in un acquario buio. Accanto a lui, solo rapide comparse (passanti, bambini che pescano orrendi pesci nel fango, un vicino di casa che piange per motivi ignoti, le ombre del fratello e della madre uccisi che si affacciano da un sogno o da una foto) e tre personaggi disegnati con estrema precisione: la vedova dell’assassino, che va a riprendersi le ossa di un figlioletto rimasto per troppo tempo nella terra del cimitero, sotto un “sole tremendo”; Danielito, adolescente solidamente fumato, che sembra in qualche modo il doppio giovanile di Cetarti; Duarte, sottufficiale dell’aeronautica in pensione ed ex commilitone dell’omicida-suicida, che truffa lo stato con sicumera e soprattutto rapisce vittime facoltose, le imbottisce di roypnol e le custodisce nella linda cantina della sua casa, in attesa del riscatto, trattandole con ordinata e allegra crudeltà.

Queste figure evocate con tocchi minimi (Duarte ha una chiostra di denti marci che sembrano “la pubblicità di un dentifricio infernale”, di Cetarti conosciamo solo le occhiaie e la magrezza, su Danielito ci viene detto di sfuggita che è grasso), che si spostano in spazi limitati e vivono in case-tana dove l’esterno rovente e malato penetra solo attraverso lo schermo della TV, si rimpinzano di fumo come se volessero cancellare i contorni della realtà e sono visitati di continuo da presenze animali. Documentari, vecchie riviste, enciclopedie dimenticate traboccano di figure e racconti su elefanti indiani impazziti o calamari giganti che emergono dalle profondità; ma anche le strade e i cortili ne sono pieni: scarabei giganti e velenosi, enormi cani che si rivoltano contro i padroni, tori fuggiti dal macello, anaconda che, sventrati, rivelano il maialino inghiottito intero… Tentacoli, proboscidi, corna, mandibole venefiche compongono di pagina in pagina un bestiario misterioso e ammonitore, malinconico e mostruoso, che ha stretti legami col mito e occupa lo spazio del sonno, del sogno.

Insieme alle immagini della TV, i sogni rappresentano infatti una vita parallela che consente a Cetarti e a Danielito di agire e di sfiorare gli altri, di “vederli” davvero: e così, accanto al racconto freddo e oggettivo della loro vita quotidiana, si svolge quello di una esistenza onirica fatta di nitide e veloci visioni. Ma anche la morte, che nel romanzo occupa tanto spazio, è una sorta di “vita” parallela, forse l’unica vera vita concessa ai protagonisti, legati alla dimensione del mostruoso quanto e più degli animali veri o virtuali che li circondano. Mostri abulici e quieti sono Danielito e Cetarti, mentre Duarte è un mostro vivace e seduttivo che colleziona spaventosi video pornografici non per eccitarsi, ma perché, con curiosità da entomologo, vuole vedere fino a che punto possono spingersi gli esseri umani, quanto è elastico il loro corpo, dove si trova il limite da superare.

È proprio attraverso di lui che Sotto questo sole tremendo, romanzo impastato di una solitudine senza sfumature che è quasi uno strumento di sopravvivenza, se non di salvezza, ci consente di vedere l’intera storia sotto un’altra luce: le foto che Danielito trova su uno scaffale mostrano suo padre e Duarte in divisa dell’aeronautica, sorridenti dopo uno scontro a fuoco nella zona di Tucumán, mentre tengono sotto tiro prigionieri bendati e legati; e poi eccoli vicino a un aereo grigio senza contrassegni, destinato a trasportare passeggeri che non torneranno.

Come sempre, Busqued non dice, si limita a mostrare, e chi conosce l'Argentina di ieri capirà che quei prigionieri bendati probabilmente appartenevano all’ERP, che gli aerei erano quelli dei voli della morte riservati a futuri desaparecidos. È un attimo, le immagini scorrono una dopo l’altra sotto gli occhi di Danielito, non sono nascoste, non sono segrete: Duarte, il sergente Duarte, è lo stesso che appare in quelle foto, tranquillo ed efficiente, sicuro di sé. Così tutto il romanzo, il sangue e lo sperma, le bestie leggendarie umiliate dall’uomo e pronte alla vendetta, gli spettri che tornano in sogno, il paesaggio devastato, i corpi torturati, il fumo, appaiono all’improvviso per quello che sono: una metafora potente del passato argentino e di tutto quello che si è lasciato dietro. Danielito e Cetarti sono suoi figli, Duarte il padre atroce e atrocemente “normale” che ancora oggi lo incarna.

 

 

Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2012