Carlos Busqued |
Sotto questo sole tremendo
Jorge Herralde, fondatore e direttore della casa editrice spagnola Anagrama,
è da sempre attentissimo alla letteratura latinoamericana: non a caso è stato lui
a lanciare Roberto Bolaño e nel suo catalogo figurano i nomi di César Aira, Mario
Bellatìn, Ricardo Piglia, oltre a quelli di giovani scrittori che rappresentano
il futuro letterario del subcontinente americano. Una prova della sua capacità di
non tirarsi indietro di fronte a scelte che possono apparire audaci, se non azzardate?
Nel 2008, tra i tanti manoscritti arrivati da tutto il mondo di lingua spagnola
per partecipare al premio cui ha dato il suo nome (vincerlo è una vera e propria
consacrazione), Herralde ha individuato quello di un esordiente del tutto sconosciuto
anche nel suo paese di origine, l’Argentina.
Il romanzo si intitolava Bajo este sol tremendo, e a scriverlo era stato
Carlos Busqued, ingegnere non ancora quarantenne nato in un paesetto del Chaco e
residente a Cordoba (oggi si è trasferito a Buenos Aires), dove insegnava all’Università
e produceva stravaganti programmi radio mandati in onda nel cuore della notte. Aveva
scritto qualche racconto, creato un blog piuttosto bizzarro chiamato La nutria
es un animal del crepuscolo, ed era estraneo a qualsiasi ambiente editoriale
e letterario.
A scrivere le 182 pagine del suo primo libro ci aveva messo quattro anni, poi
le aveva infilate in una busta e spedite a Barcellona, dove Herralde ha immediatamente
deciso di pubblicarle. È così che, nel 2009, è uscito in Spagna e in Argentina un
romanzo accolto dalla critica e dai lettori come una vera rivelazione, e che grazie
alla casa editrice Atmosphere appare in italiano nella traduzione di Silvia Raccampo.
Ed era davvero ora che Sotto questo sole tremendo, già tradotto in Francia
e in Germania, arrivasse da noi, anche se c’è il rischio che se ne accorgano in
pochi, visto che non si tratta di un concorrente al premio Strega, di un porno-rosa
per signore anziane o dell’opera prima di qualche ragazza graziosa. Ma di leggerlo
vale la pena, eccome, perché il romanzo di Busqued è in grado di folgorare più di
un lettore, lasciandolo così profondamente inquieto da continuare a pensarci con
un’ombra di incuriosito disagio.
In apparenza Sotto questo sole tremendo è un noir in piena regola,
che si apre con l’annuncio di tre morti violente, prosegue con truffe e rapimenti
organizzati da un ex militare che gestisce una vera e propria industria del sequestro
di persona, indugia sulla descrizione di un video pornografico oscillante tra il
sadismo e il ridicolo, contempla due suicidi e si chiude con altri tre cadaveri.
In realtà, però, il romanzo è qualcosa di più e di meglio che una pura e semplice
novela negra, esce dagli schemi e utilizza in modo imprevisto gli elementi
che potrebbero ricondurlo al genere.
Ambientata in un desolato paesaggio provinciale, tra un lurido e paesetto del
Chaco australe, Lapachito, e l’estrema e povera periferia di Cordova, con i suoi
macelli dall’odore pestilenziale e casette abusive circondate da sterpi, la storia
non è particolarmente ricca di colpi di scena (se si esclude una sorta di inatteso
lieto fine), ma, sostenuta da un ritmo serrato e senza sbavature, sembra costruirsi
mentre la leggiamo, grazie a una impeccabile montaggio che accosta un’immagine all’altra
senza dilungarsi troppo in descrizioni, definendo ogni scena grazie all’uso di pochi,
forti elementi visivi e a un’oggettività iperrealista dietro la quale Busqued sembra
nascondersi, deciso com’è a vedere e far vedere, senza giudizi morali o approfondimenti
psicologici. E forse sono la spassionata rapidità, la naturalezza, lo humor nerissimo
con cui disegna lo squallore e l’orrore, a far sì che finiscano per sembrarci tremendamente
normali.
Il protagonista, Cetarti, è stato appena licenziato per scarso rendimento, passa
tutto il suo tempo in casa a guardare i documentari di Discovery Channel e Animal
Planet, fuma incessantemente marijuana, e nel corso del romanzo impara a fare a
meno di quasi tutto: una figura anonima, senza volto e senza emozioni, che ha come
unico compagno un axolotl immerso in un acquario buio. Accanto a lui, solo rapide
comparse (passanti, bambini che pescano orrendi pesci nel fango, un vicino di casa
che piange per motivi ignoti, le ombre del fratello e della madre uccisi che si
affacciano da un sogno o da una foto) e tre personaggi disegnati con estrema precisione:
la vedova dell’assassino, che va a riprendersi le ossa di un figlioletto rimasto
per troppo tempo nella terra del cimitero, sotto un “sole tremendo”; Danielito,
adolescente solidamente fumato, che sembra in qualche modo il doppio giovanile di
Cetarti; Duarte, sottufficiale dell’aeronautica in pensione ed ex commilitone dell’omicida-suicida,
che truffa lo stato con sicumera e soprattutto rapisce vittime facoltose, le imbottisce
di roypnol e le custodisce nella linda cantina della sua casa, in attesa del riscatto,
trattandole con ordinata e allegra crudeltà.
Queste figure evocate con tocchi minimi (Duarte ha una chiostra di denti marci
che sembrano “la pubblicità di un dentifricio infernale”, di Cetarti conosciamo
solo le occhiaie e la magrezza, su Danielito ci viene detto di sfuggita che è grasso),
che si spostano in spazi limitati e vivono in case-tana dove l’esterno rovente e
malato penetra solo attraverso lo schermo della TV, si rimpinzano di fumo come se
volessero cancellare i contorni della realtà e sono visitati di continuo da presenze
animali. Documentari, vecchie riviste, enciclopedie dimenticate traboccano di figure
e racconti su elefanti indiani impazziti o calamari giganti che emergono dalle profondità;
ma anche le strade e i cortili ne sono pieni: scarabei giganti e velenosi, enormi
cani che si rivoltano contro i padroni, tori fuggiti dal macello, anaconda che,
sventrati, rivelano il maialino inghiottito intero… Tentacoli, proboscidi, corna,
mandibole venefiche compongono di pagina in pagina un bestiario misterioso e ammonitore,
malinconico e mostruoso, che ha stretti legami col mito e occupa lo spazio del sonno,
del sogno.
Insieme alle immagini della TV, i sogni rappresentano infatti una vita parallela
che consente a Cetarti e a Danielito di agire e di sfiorare gli altri, di “vederli”
davvero: e così, accanto al racconto freddo e oggettivo della loro vita quotidiana,
si svolge quello di una esistenza onirica fatta di nitide e veloci visioni. Ma anche
la morte, che nel romanzo occupa tanto spazio, è una sorta di “vita” parallela,
forse l’unica vera vita concessa ai protagonisti, legati alla dimensione del mostruoso
quanto e più degli animali veri o virtuali che li circondano. Mostri abulici e quieti
sono Danielito e Cetarti, mentre Duarte è un mostro vivace e seduttivo che colleziona
spaventosi video pornografici non per eccitarsi, ma perché, con curiosità da entomologo,
vuole vedere fino a che punto possono spingersi gli esseri umani, quanto è elastico
il loro corpo, dove si trova il limite da superare.
È proprio attraverso di lui che Sotto questo sole tremendo, romanzo impastato
di una solitudine senza sfumature che è quasi uno strumento di sopravvivenza, se
non di salvezza, ci consente di vedere l’intera storia sotto un’altra luce: le foto
che Danielito trova su uno scaffale mostrano suo padre e Duarte in divisa dell’aeronautica,
sorridenti dopo uno scontro a fuoco nella zona di Tucumán, mentre tengono sotto tiro prigionieri bendati e legati;
e poi eccoli vicino a un aereo grigio senza contrassegni, destinato a trasportare
passeggeri che non torneranno.
Come sempre, Busqued non dice, si limita a mostrare, e chi conosce l'Argentina
di ieri capirà che quei prigionieri bendati probabilmente appartenevano all’ERP,
che gli aerei erano quelli dei voli della morte riservati a futuri desaparecidos.
È un attimo, le immagini scorrono una dopo l’altra sotto gli occhi di Danielito,
non sono nascoste, non sono segrete: Duarte, il sergente Duarte, è lo stesso che
appare in quelle foto, tranquillo ed efficiente, sicuro di sé. Così tutto il romanzo,
il sangue e lo sperma, le bestie leggendarie umiliate dall’uomo e pronte alla vendetta,
gli spettri che tornano in sogno, il paesaggio devastato, i corpi torturati, il
fumo, appaiono all’improvviso per quello che sono: una metafora potente del passato
argentino e di tutto quello che si è lasciato dietro. Danielito e Cetarti sono suoi
figli, Duarte il padre atroce e atrocemente “normale” che ancora oggi lo incarna.
Questo articolo è uscito su Il manifesto nel luglio del 2012